DOMENICO PISANA, IL POETA “SCAPHANDRIER”

Ogni poesia è traccia di un abisso che solo il poeta-sacerdote, lo sciamano, lo scaphandrier, è deputato a perlustrare; egli, come un palombaro, s’immerge nell’oscurità di un universo sommerso, sfuggente nei contorni, per riportare alla luce quegli “ossements fossile” (depositi archeologici-archetipici), residui, frammenti, pezzi di un mondo, come capita di ritrovarne solo dopo un naufragio-disastro  privo di un epicentro accertabile, il deposito archeologico della “verità” che resiste come “littera”, traccia, residuo rivivificabile dall’opus alchemico della memoria poetica nel suo ritorno per deriva al “porto sepolto della conoscenza”.

S’inabissa Domenico Pisana, questo naufrago-pellegrino, nel fondo oscuro del proprio essere, nei territori sepolti dell’inconscio e dell’insondabile facendo sì che la sua parola, il canto, diventi “reminiscenzadi “quell’inesauribile segreto”(Ungaretti) al quale la lingua può corrispondere solo con il divario ineliminabile di un “fragmentum legato alla struttura del tempo. Un tentativo di corrispondenza tra mondo e linguaggio, comunque preordinata a ri-velarsi attraverso l’eccedenza e la sottrazione, la dismisura e la discontinuità, a rivelarsi imperfezione nel segno dominante dell’inespresso.

Il frammento, pertanto, comporrà altri frammenti, polarizzerà, orientando, catalizzerà, attraendo, scioglierà, coordinando  il saputo, il conoscibile, il dato, l’inedito, lo iato aperto fra l’essere e il non-essere.

 

[…] Sono qui a ricercare la ragione.

In questo mio tempo ho soltanto una piccola scialuppa nel mare

infinito […]

 

Quale “dimensio”, allora, per questo errante del ‘mare infinito’ rappresentato da Domenico Pisana?

Quella di un crociato partito alla volta del Santo Sepolcro, quella del cavaliere alla ricerca del Santo Graal, dell’Hernan Cortés di  una nuova Reconquista, del naufrago di Defoe, dell’uomo dantesco che vuole continuare a compiere il folle volo o quale altra ancora?

A quale schiera di eroi o antieroi vorrà il poeta Pisana appartenere, pur di arrivare a conoscere il giorno del ritorno?

Di sicuro non potrà più dirsi un ‘campione del Logos’, un missionario tanto indottrinato da poter scalare con la sua summa theologica ora la cima delle Ande peruviane, ora l’Himalaia o un vulcano della  Nuova Guinea.

Per lui, infatti, altre vette e altri acrocori montuosi si profileranno all’orizzonte involandosi dai pinnacoli delle torri delle città del mondo innalzate al cielo dalle nuove Archistars del terzo millennio, ebbre di potenza di costruzione di nuove e mirabolanti Babilonie. Overdose luminosa di pixel e led creati a bella posta per nostromi virtuali, come lui, in quanto eredi diseredati dai Lumi, destinati a scoprire di dover tornare a procedere a tentoni supplicando il primo Diogene di turno per il dono di un’altra lanterna, che permetta con la sua fioca luce di distinguere a un palmo appena dal suo naso.

 

[…] Abbiamo intrapreso una folle corsa per uccidere Dio e impadronirci del cosmo e ora è notte fonda, fa freddo,

siamo caduti nel vuoto

privo di luce. […] Cerco la Lanterna […]

 

E sì, perché nell’estenuante notte zeppa di sgherri e falsi pescatori di uomini, di  filosofi e finti profeti, di traditori e peccatori, di apostoli e pellegrini, di apostati e redenti, di salvati e smarriti, il naufrago di Domenico Pisana avanzerà consapevole della necessità di inciampare nell’errore, incline come è ad andare ramingo fra gli scarti di un’umanità compulsivamente produttiva e razionale.

Pisana sa di errare senza meta, ma al tempo stesso quasi con grande raccapriccio sa di dover continuare ad assecondare il desiderio inesauribile di approdare al di là della linea di fuga, sfuggendo alla spirale aurea del labirinto, in cui le significazioni, come le onde del mare, ora affiorano, ora si eclissano, in un’alternanza continua di senso afferrato e senso perduto, verso un centro che si allontana proprio quando sembra farsi più vicino.

 

[…] I miei occhi osservano il pianto dei naufraghi,

 cercano nuovi mondi di certezze  … 

 chiedono dov’è la dea ragione.

        Ora è tempo di ritrovare il limite dei lumi invasi d’assoluto […]

 

Nel delirio di onnipotenza, la sua incrollabile Ragione che ha convertito l’uomo sicuro di sé e degli altri a disimparare a sperare, si è fatta al contempo castigo e benedizione legata al trauma dell’erranza stessa e al superamento del limite e della vertigine che apre il varco che si cela dietro le apparenze e “l’eschaton peras” (il confine estremo), al cui lembo lo sguardo e l’intelletto si aggrappano per evitare l’orrore del possibile Nulla.

 

 […] Mi distendo nell’umore dell’acqua

ov’ è il pensiero a scontrarsi con l’urto dell’onda

 e il corpo un sasso gettato nei fondali di sabbia

 in attesa del nuovo ormeggio al suo porto.[…]

 

Non è un caso, a nostro giudizio, che il lemma “sequor” (io seguo) contenga tanto “aequor” (distesa d’acqua, mare), di fronte al quale l’homo viator deve abbandonare ogni presunzione e compiere la scelta di mollare gli ormeggi delle certezze consolatorie perché positive, consolatorie perché uguali a se  stesse, consolatorie perché fiduciose nella possibilità di farlo essere e operare in modo efficacemente oggettivo e capitalizzabile: un’inespugnabile tassonomia di principi e prassi, di obiettivi e criteri applicativi, meccanicamente trasferibili da un piatto all’altro della bilancia.

 

[…] E dalla riva vedo naufragare una bilancia. Un piatto resiste alle onde, l’altro scivola inerme sul fondo.[…]

 

Un piatto che si sgancia dal suo sistema di equilibrio, ecco il  dono per il cybernata economicus presuntuosamente perfetto, “l’escathon doron” (il dono estremo) di Pandora che non gli consegnerà la speranza, ma il disequilibrio esistenziale fatto di derive senza pesi e senza zavorre, di moto inerziale in una liquidità che non riesce a farsi mai flusso amniotico necessario alla “distensio animae”, che anela ad “Essere e ad Essere nell’Essere”.

 

     Con i suoi piatti gravidi di […] parole assolute e d’incomprensione, […] la Parola è uscita dalla solitudine per farsi solitudine […]

 

E come il piatto della ragione si disancorerà dalla sua bilancia, così anche la parola si disancorerà dalla Parola senza più riuscire ad arrivare al Silenzio e aggiungere silenzio a silenzio.

Il navigante “ignarus” dovrà, pertanto, accettare di attraversare il fondo del disorientamento che orienta per diventare “gnarus” e poter finalmente vedere attonita la sua anima fuori dal tradizionale illusionismo mono o pluri-prospettico.

Dovrà quindi compiere il Naufragio Totale: un Naufragio Necessario, l’unico naufragio possibile e auspicabile per l’esule che voglia fare ritorno all’Itaca fisica e metafisica, interiorizzata come terra di avvio della conoscenza e come terra di ritorno alla consapevolezza. Una terra che non potrà mai darsi a lui come definitiva e stabile, in quanto radicante gli uomini non attraverso l’armonia degli opposti, bensì attraverso il loro contrasto, attraverso l’Inconoscibilità dell’esistenza navigabile non su scialuppe di salvataggio,  ma su zattere malferme.

Quelle zattere malferme che, come un universale “vas electionis”, diventano nuovo utero fecondo dentro il quale l’umanità può tornare a sperimentare – afferma il poeta – un […] sentimento capace di amare con sentimento […].

A questo punto, lontano dall’oracolo di sapienziali sicurezze, in uno spazio e in un tempo destinato ad andare “a fondo”, il capo del naufrago Pisana si solleverà fuori dal concavo abisso furioso e annichilente, senza la paura che la sua Itaca lo possa consegnare all’oblio, lasciando cadere i suoi versi come foglie smorte.

 […] La mia casa di vetro appare un giocattolo da rompere […], dirà con profonda consapevolezza e senza alcun timore l’Ulisse di Domenico Pisana, quando noterà che il suo oblio a Itaca  […] sarà pane anche per Argo. […]

Egli, ormai, da esule “gnarus”, un esule cioè che ha imparato a guardare da lontano, riuscirà a osservare da vicino proprio tutte le possibilità debitrici aperte dall’ “epistrophè” dell’andare in dietro, in profondità, nel vallum abissale designato a volgere la forza d’urto delle onde della ragione in impulso a costruire, in impulso fattivo alla resistenza.

 

           […] Siamo qui a sperare la speranza.

 Il rosso della sera mi inonda gli occhi:

qui rivedo il messaggio dei tuoi occhi.

Il viso chinato conta le mie orme sulla sabbia,

          mancano quelle dei tuoi piedi. […]

 

Il poeta sa  così che la zattera perplessa che ha spinto il suo andare “sans savoir” lo farà approdare al recupero dell’Unità, convertendo il suo “apprendere con gli occhi” alla complessità dell’ “idein” (vedere-conoscere-sapere) non più al di qua o al di là dei segni, ma dentro i segni stessi, nello spazio rituale  del Mistero in cui le orme dilazionate nella continua assenza, riconsegneranno una sovrabbondante presenza di gesto, sguardo e Parola.

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it