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Corte di Appello. Basta assegno al figlio 18enne che non vuole studiare né lavorare
06 Ott 2022 10:19
Autoresponsabilità. È il principio che deve ispirare il figlio ormai maggiorenne, che deve andare a lavorare, se a scuola non andava bene: non c’è infatti la prospettiva che possa proseguire con profitto gli studi all’Università. Una volta che ha completato la formazione necessaria a produrre reddito, il giovane deve attivarsi per la ricerca di un’occupazione, senza poter pretendere il mantenimento dai genitori: se ha finito gli studi o li ha abbandonati per scelta, la stabilità del lavoro non dipendono – né possono dipendere – da papà o mamma, così come la qualità dell’attività e la retribuzione.
È quanto emerge dalla sentenza 1391/22, pubblicata il 22 settembre dalla prima sezione famiglia civile della Corte di appello di Bari, che s’innesta sulla direttrice dell’ordinanza anti-bamboccioni 17183/20, pubblicata dalla prima sezione civile della Cassazione. È accolto soltanto sul punto il gravame proposto dal padre divorziato: revocato il contributo di 400 euro al mese per mantenimento per la figlia ormai ventiseienne. Che ha smesso di studiare circa otto anni orsono, dopo il diploma all’istituto alberghiero: ha dunque acquisito una qualifica professionale che consente «l’inserimento nel mondo del lavoro, settore ristorazione». E il lungo periodo trascorso dalla fine del percorso di studi deve «portare a ritenere doverosamente» che la ragazza abbia acquisito la capacità per trovare un’occupazione.
Per il giudice della Corte di Appello di Bari, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “L’ordinanza 17183/20 mette in relazione il diritto-dovere all’istruzione e all’educazione con quello al mantenimento: quest’ultimo per il figlio sussiste nell’ambito – e nei limiti – di un progetto formativo. E dunque è proprio la funzione educativa del contributo economico a circoscrivere l’obbligo di mantenimento a carico del genitore, in termini sia di contenuto sia di durata, per il tempo mediamente necessario a consentire al giovane d’inserirsi nella società. Insomma: non si può pretendere che il genitore continui a mantenere il maggiorenne finché l’interessato non trova l’occupazione che ritiene più vantaggiosa.
E ciò per evitare «forme di controproducente assistenzialismo». Confermato, invece, l’assegno divorzile, seppur minimo: quanto più lungo è stato il matrimonio, tanto più rilevante è il contributo fornito dal coniuge debole alla formazione del patrimonio comune e alle capacità reddituali dell’altro, nell’ambito di una valutazione che impone la piena equiparazione del lavoro domestico a quello prestato extra moenia.”
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