ART.18… QUEL CHE NON RIUSCI’ A BERLUSCONI

Il governo va avanti anche senza accordo con le parti sociali, per la verità (come da ormai diversi anni) è solo la CGIL ad opporsi alla riforma dell’art. 18 così come la sta strutturando il governo Monti.

In effetti le altre organizzazioni sia datoriali che sindacali alla fine hanno dato il loro assenso alla rimodulazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori.

Secondo quello che il ministro Fornero ha esplicitato in conferenza stampa i licenziamenti “senza giusta causa” saranno trattati in modo differenziato e la norma si estenderà a tutti i lavoratori:

a) licenziamento per discriminazione (ammesso che qualcuno riesca a dimostrare che il licenziamento sia avvenuto per discriminazione) viene sanzionato con il reintegro;

b) nel licenziamento per motivi disciplinari rimane nella disponibilità del giudice di sanzionare o con il reintegro (in casi gravi) o con un indennizzo;

c) nel caso di licenziamento per motivi economici al lavoratore spetterà comunque solo un indennizzo che può arrivare da un minimo di 12 ad un massimo di 27 mensilità(!).

Di fatto al governo Monti sta riuscendo l’impresa che non riuscì a Berlusconi che sull’abolizione dell’art. 18 si scontrò nel 2002 con i tre milioni di manifestanti della CGIL di Cofferati!

Vero è che il tutto è inquadrato in una riforma più complessiva che ha anche tanti elementi di novità positivi, vero è che con le modifiche annunciate dal governo in realtà non si elimina l’art. 18, anzi le tutele si estendono anche ai lavoratori di piccole imprese, ma è vero anche che si diluisce fortemente la tutela del diritto al reintegro e se ne limita fortemente la portata deterrente nei confronti dei datori di lavoro e che, in tutta franchezza, si ha la sensazione che l’approccio del governo sia stato “ideologico”.

L’art. 18 che in atto protegge il lavoratore dal licenziamento senza giusta causa, era una norma pensata per riequilibrare la diversa forza contrattuale del lavoratore rispetto al datore di lavoro che se condannato doveva reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro.

Si applica alle aziende con più di 15 dipendenti, in pratica tutela circa 8 milioni di lavoratori su 23, il perimetro non è amplissimo, si stima che su un totale delle cause pendenti (diverse decine di migliaia) solo 500/700 fanno riferimento all’art. 18, in più  tutti gli osservatori dicono che, al di la delle previsioni legislative, nella pratica le vertenze che chiamano in causa l’art. 18 nella stragrande maggioranza dei casi si chiudono transattivamente concordando un indennizzo tra le parti: spesso il lavoratore già ora “sceglie” (anche se la legge gli permetterebbe di essere reintegrato) l’indennizzo perché non se la sente di affrontare la conflittualità che si instaura con il datore di lavoro.

Ma allora era proprio necessario porre la centralità della questione e rischiare in un momento di profonda crisi economica di inasprire le tensioni sociali spaccando il fronte dei lavoratori?

E’ un caso che tutto questo accada proprio all’indomani della riforma del sistema pensionistico? Appena tre mesi fa il governo ha detto ai lavoratori che per la pensione dovevano lavorare mediamente 4/6 anni in più … fino a 68 anni (a regime) … dopo appena tre mesi il governo in pratica “rassicura” le imprese che “per motivi economici” potranno liberarsi di un dipendente con il pagamento di un semplice indennizzo…  è troppo malevolo tirare la conclusione che l’aumento dell’età pensionabile resta tutta come rischio a carico del “solo” lavoratore dipendente? 

La CGIL aveva richiesto, assieme agli altri sindacati che poi hanno ceduto, che per i licenziamenti per causa economica fosse lasciata al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, lasciando il reintegro per i licenziamenti a seguito di provvedimenti disciplinari oltre ovviamente a quelli discriminatori, ma il governo su questo punto è stato inflessibile, mi chiedo: come mai?

Non ci si rende conto che questo può avere conseguenze pesantissime sulla tenuta stessa del governo, già Lega e IDV annunciano battaglia in Parlamento e il PD si trova in una situazione di grave tensione: lacerato tra la scelta di sostenere il governo Monti e la voglia di non abbandonare la CGIL nella difesa di una tutela dei lavoratori?

Viene il dubbio che Monti voglia “una tacca sulla pistola” come i pistoleros dei film western degli anni ’70!

Si sa che i mercati vedono sempre di buon occhio legislazioni che semplificano la possibilità di licenziare e vuole giocarsi questa carta. Lo si può riscontrare nelle quotazioni azionarie delle aziende che subiscono delle impennate ogni volta che annunciano ristrutturazioni aziendali con riduzione di personale. 

Ma è bene sempre ricordare che qua stiamo parlando non di licenziamenti collettivi che nelle fasi di crisi dei mercati avvengono comunque e in Italia negli ultimi anni sono avvenuti in abbondanza, non dei licenziamenti individuali dei dipendenti infedeli che sono più che giustificati e non sono tutelati da nessun articolo dello “Statuto dei Lavoratori”, ma stiamo parlando di licenziamenti “senza giusta causa”!

E’ giusto dopo che ai lavoratori è stato di fatto richiesto di pagare la crisi in denaro (aumento delle imposte IMU, IVA etc.), e di pagarla anche in lavoro (aumento dell’età pensionabile di 4/6 anni), anche di pagarla in diminuzione di tutele?

Qualche parola va pure spesa sul metodo: Monti, impeccabilmente dal punto di vista istituzionale ha puntualizzato che il tavolo con le parti sociali è solo “consultivo”, quindi non ci sarà nessuna firma di “accordo”, ma solo un “verbale” che accompagnerà la proposta del governo alle Camere; in questo modo oltre al “tabù” dell’art. 18 viene messo in discussione anche il metodo della concertazione perché, come dice Monti, l’interlocutore unico resta il Parlamento.

Pur considerando che in momenti particolari della vita del nostro Paese il metodo concertativo ha rappresentato un punto di forza per mantenere la coesione sociale, è giusto riconoscere al governo l’autonomia gestionale di fare a meno di questo metodo che secondo la vulgata di Monti ha invece addossato alla collettività oneri suppletivi.

Però così come ho definito impeccabile dal punto di vista istituzionale la scelta di Monti, di avere come unico interlocutore il Parlamento non vorrei poi però assistere all’imbrigliatura del Parlamento con l’apposizione della fiducia anche su questo provvedimento; sarebbe un grave atto di incoerenza istituzionale blissare prima il consenso dei “corpi sociali intermedi” in nome della sovranità del Parlamento per poi forzarne la libera determinazione!    

 

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