A TEATRO CON LA COMPAGNIA TEATRO NUDO IN “VESTIRE LA TUA PELLE”

Cos’è un palco teatrale se non la possibilità di dare spettacolarizzazione alle emozioni vissute da noi stessi, ma anche e soprattutto da altri?

Cos’è il teatro se non quel luogo in cui dar vita all’animo davanti una platea in estasi di sentire?

Questa sera i sipari del Teatro la Tosse di Genova si sono aperti per raccontare cinque esperienze di vita rigorosamente al femminile, perché femminile è sinonimo di una sensibilità atipica e di genere. Cinque attrici, quelle della Compagnia Teatro Nudo, che hanno portato in scena cinque storie di vita vera, storie che intrecciano l’esperienza tragica del sopravvivere all’Olocausto, agli stereotipi imposti all’essere donna, a quei ruoli appiccicati all’essenza femminile, non solo dalla politica nazista, ma dalla stessa società intrisa di malsana misoginia.

Uno spaccato umano di vittime e carnefici sospeso su un palcoscenico scarno, riempito solo da vestiti, scarpe e parrucche.

Sulla scena, c’è la pin up, l’attrice, l’amante, la sopravvissuta, c’è ogni stereotipo conosciuto e attribuito alla donna e queste cinque attrici non hanno nulla da invidiare ai migliori interpreti di sempre nella loro resa artistica.

Lida Baarova è l’amante, Renate Muller la segretaria perfetta, Kristina Soderbaum la tedesca ingenua, Marika Rokk la pin up, Zara Leander la femme fatale.

Le attrici: Simona Fasano, Susanna Gozzetti,  Cosetta Graffione, Emanuela Rolla e Lidia Treccani, solcano la scena come se vi appartenessero e nulla hanno da invidiare ai migliori interpreti conosciuti.

L’emozione è viva, sia da parte del pubblico che delle interpreti, che la fanno trasparire a ogni gesto, ogni sensuale movimento e ogni battuta recitata.

La prima storia è quella di Sala, interpretata da Simona, che con austera coscienza di sé recita il vissuto di una donna arresa, rassegnata all’insopportabile immedesimazione alle proprie emozioni.

Già di per sé l’interpretazione ben crea l’immagine dello scenario entro cui si è svolta ciascuna storia, bastano le parole di chi recita a far immedesimare il pubblico nell’ambiente entro cui essa si svolge. Sono pochi i movimenti, ma bastano a esplicitare le emozioni rese dalle storie.

L’arrendevolezza nella storia di Sala è resa con il suo svenimento, il sollevamento del suo corpo che viene erso e accompagnato dall’affievolimento delle luci. L’atmosfera è indescrivibilmente metafisica. Non è un quadro di De Chirico, ma l’immagine resa dalla suggestione di questa scena potrebbe essere egualmente raccontata.

La seconda storia è quella della deportata, non ebrea, Erika, rea di essersi innamorata di un giudice ebreo in combutta con un collega affiliato al nazismo.

Quella di Erika è la storia dell’amore, di quell’amore immenso e incommensurato che solo una donna può provare. Di quell’amore inspiegabile che fugge al raziocinio e, anzi, raccoglie e somma indisposizioni e critiche. La solitudine, l’indifferenza e il giudizio delle famiglie che, piuttosto, ti abbandonano al tuo destino d’amore.

La terza storia è più cruda, più cruenta, fosse solo perché lo sfondo è, direttamente, il campo di concentramento di Auschwitz con le sue recluse, donne abbandonate a se stesse, costrette a procurarsi la zuppa dentro gli zoccoli da lavoro avendo cura di non farseli rubare.

Segue il silenzio perché necessaria è la riflessione. Le attrici, nei loro essenziali abiti in licra color carne, iniziano a riprodurre dei singolari suoni onomatopeici. Suoni scarni, forti, diretti. Di per sé elementari, ma funzionali a richiamare il senso del dolore di un campo di prigionia.

I volti sono duri, i movimenti dei corpi irreprensibili, estremamente esplicativi nella loro essenzialità. Raccontano di amiche scomparse, figli e amanti abbandonati per la loro salvezza, raccontano di dolore e forza. Raccontano di solitudine. Raccontano di donne abbandonate alla loro solitudine.

La quarta storia è quella di una dottoressa ebrea ritrovatasi a lavorare nei campi di concentramento, a preferire l’aborto indotto alla morte prevista. La dottoressa dei campi di sterminio, braccio destro del Dottor Morte, finisce per convincere le relegate a procurarsi l’aborto per non farle divenire cavie di esperimenti scientifici con l’unico risultato della morte di mamma e bimbo.

Quale miglior immagine se non quella di un cordone ombelicale che, come da mamma a bambino, ci lega tutti. Un cordone ombelicale che lega anche crimini e criminali, la loro pretesa di acquiescenza, oltre che il dolore di chi ha subito vissuti che dilaniano l’animo.

Le storie si susseguono e parallelamente gli stereotipi di donna che hanno segnato, e continuano, a segnare il panorama sociale internazionale.

Famiglia. Matrimonio. Immagine di donna pudica contrapposta a quella libertina.

I corpi delle attrici sul palco segnano il ritmo, il ritmo di prigionia, di clausura, di non comprensione, di indifferenza e reticenza.

Quello che resta è che, nonostante gli immensi impedimenti, quello femminile è un genere capace di assorbire e sobbarcarsi le più immani imprese, anche nelle più atroci condizioni e anche se schiacciate dalla contemporaneità, oggi come allora.

Questa è la vita, si fa quel che si può, in ogni tempo e in ogni situazione.

 

 

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it