PICCOLE SORELLE DI GESÙ NELLA NOSTRA CHIESA PER TRADURRE LA PREGHIERA IN PROSSIMITÀ EVANGELICA

Incontriamo Suor Egilda e suor Roula alla Casa don Puglisi di Modica, la loro “finestra” sul territorio. Sono qui a nome delle piccole sorelle di Gesù di tutta Italia, per accompagnare la preghiera per la pace con un gesto concreto di vicinanza evangelica. Ogni giorno sono andate a portare una parola di conforto ai profughi sbarcati sulle nostre coste, aiutate dal fatto che Roula parla l’arabo (viene dal Libano), ma hanno avuto modo di incontrare anche la vita parrocchiale, partecipare al convegno diocesano, vivere un dialogo molto bello con le Carmelitane Scalze. Chiediamo loro anzitutto di presentarsi, perché per la nostra Chiesa diventa la possibilità di conoscere un carisma affascinante, quello legato alla testimonianza di Charles de Foucauld. «In Italia – ci dice Egilda – siamo presenti in otto fraternità sparse sul territorio italiano ma più verso il Centro-nord perché l’ultima fraternità al Sud si trova a Napoli. Ci sono anche le sorelle che vivono con gli zingari, i rom, in un campo nomadi a Cosenza. In genere le nostre fraternità sono situate nelle periferie delle grandi città, nei quartieri a rischio, laddove le persone in fondo non contano. Una fraternità è presente a Torino in centro, aperta all’accoglienza di donne a contatto con la prostituzione o casi di transessuali. La presenza in Italia cominciò nel 1949 da una borgata di Roma, laddove degli immigrati si ritrovavano intorno a una fontanella d’acqua in cui costruivano la loro baracca. Le sorelle allora abitarono anche loro queste baracche e nel 1980 hanno avuto come tutti i vicini la casa popolare». Cosa c’è al centro del vostro carisma? «Quello che si vuole vivere è una vita religiosa a imitazione di Gesù di Nazaret, in quella che è stata la sua vita concreta nei trent’anni di vita di lavoro; è stata questa l’intuizione di Charles de Foucauld alla fine 1800. Anche se aveva scelto una vita religiosa estrema nella trappa, andando in Siria a vegliare una famiglia cristiana capi la necessità di un passo ulteriore. “È vero – diceva – noi siamo poveri ma non siamo poveri come queste famiglie. Abbiamo una sicurezza, abbiamo il monastero se non altro”. Cominciò così un cammino di ricerca, appoggiato dai suoi superiori, forse in anticipo sui tempi, tant’è vero che lui è morto solo in Algeria nel 1916 durante la Prima Guerra Mondiale. Aveva vissuto lì con gli arabi, gli algerini, una vita di fraternità, di amicizia. Diceva: “questa mia casa deve essere chiamata fraternità perché ognuno che vi mette piede deve essere fratello”. Nel 1933 i piccoli fratelli di Gesù e nel 1939 la nostra piccola sorella Magdeleine (la prima piccola sorella) hanno ripreso, non tanto gli scritti, quanto la modalità di vita di frate Carlo, lui che voleva vivere una vita di preghiera in unione col Signore però aveva la sua casa era invasa dalle persone … Quello che lui trasmetteva era il “Nazaret” in sé. Fino ad allora c’era stato chi voleva seguire la vita di Gesù maestro c’erano le scuole che guariva, c’erano gli ospedali, i monasteri, però questa vita di Nazaret, questo mistero in sé non era stato ancora scavato a livello di fede religiosa e di possibilità concreta. Che si lega all’ordinario della vita, che poi ha un senso e verrà un giorno trasfigurato. Come Gesù, che a Nazaret è stato il carpentiere, noi viviamo in solidarietà con i nostri vicini ,i quali normalmente sono persone semplici, con lavori manuali, a prescindere dalla professione che potevamo avere prima. Scegliamo questo: al seguito di Gesù e in solidarietà con il vicino. Al termine di una giornata di lavoro o all’inizio per noi è importante riportare tutto questo nel discernimento cristiano a Colui che è il Signore della storia. Anche l’adorazione giornaliera che noi facciamo non è una adorazione devozionale, ma è qualcosa di esistenziale: un riportare l’esistenza al vertice, a Dio, attraverso la richiesta di perdono e l’offerta di ciò che di bene si vede».

 

Suor Roula sulla volontà di pace della gente del Medio Oriente

Libano, Siria: terre belle, ecumeniche,

devastate da interessi violenti

 

Io sono del Libano, paese di diecimila chilometri quadrati, con quattro milioni di abitanti. Il venti per cento sono profughi siriani. Questo piccolo paese ha sofferto molto per la guerra dal 1975 al 1990, anche se non posso dire che la guerra è del tutto finita. Però non possiamo dimenticare che Giovanni Paolo II, quando è venuto in Libano nel 1987, ha detto: «Questo paese è più che un paese. È un messaggio». Un messaggio di convivialità malgrado le difficoltà della convivialità delle differenze. Vorrei citare qualche iniziativa che illustra come il Libano sia un messaggio. C’è un gruppo che si chiama “Insieme attorno a Maria nostra signora”. È un’iniziativa che è partita dalla scuola dei padri gesuiti e il comitato è formato da cristiani e musulmani. Ci si ritrova il 25 marzo di ogni anno per festeggiare assieme l’annunciazione cristiani e musulmani, l’unica festa religiosa al mondo in comune tra cristiani e musulmani intorno a Maria che è diventata anche festa nazionale. Posso citare anche “Offro la gioia”, ovvero degli incontri per giovani cristiani e musulmani soprattutto nelle regioni che sono state distrutte dalla guerra come Tripoli nel Nord, dove ci sono sempre stati conflitti tra sunniti e halauiti nell’ambito musulmano. Questi giovani hanno cercato ogni anno di guardare a un quartiere molto povero e provvedere ad aggiustarlo (dipingendo muri, riprendendo costruzioni) e il 13 aprile fanno incontrare i preti musulmani (imam) e i preti cattolici delle diciotto comunità che esistono in Libano. Si ritrovano tutti sulla piazza che è diventata un luogo simbolico, perché proprio lì la guerra è stata terribile, per dire no alla guerra. Ce ne sono anche altre che lavorano per dire no alla guerra e ai conflitti che possono sorgere attraverso queste diversità. Ultimamente abbiamo scelto di andare a vivere un’esperienza di sei settimane in un campo palestinese perché abbiamo saputo che in questo campo palestinese c’è ancora qualche cristiano presente ed è un campo aperto in cui possiamo entrare anche come chiesa a Tiro nel Sud del Libano. Per me questa esperienza in quanto libanese è stata molto forte, perché noi cristiani del Libano siamo cresciuti con l’idea che i palestinesi vogliono il nostro paese al posto della Palestina. L’esperienza bella è stata che, le tre piccole sorelle che siamo andate, ci siamo sentite talmente accolte da poter andare per sei settimane in tutte le case a salutare, sentendoci accolte da tutti con molta gioia. Abbiamo detto: è vero, è uno dei posti più svantaggiati perché gli ostacoli sono tanti all’interno del campo. Ci sono, infatti, libanesi e palestinesi, cristiani e musulmani, palestinesi libanesi e palestinesi siriani che arrivano ora a causa della guerra. Molte le divisioni. E però sentiamo che è il nostro posto perché possiamo essere piccoli segni di speranza. Abbiamo deciso, incontrandoci tutte insieme, di fondare una fraternità là in questo campo. Poi sono stata anche Damasco. Io sono qualcuno che ha vissuto solo la guerra in Libano. La presenza siriana in Libano è stata la presenza degli occupanti per vari anni, dal 1978 al 2005. E questo ti lascia delle ferite. Ma rendo grazie al Signore per la fraternità che ci aiuta a superare questi sentimenti per trovare l’altro nella sua ferita. I mesi che ho vissuto a Damasco mi hanno permesso di sentire da vicino la sofferenza di questo popolo che sta vivendo adesso la guerra. Prima di andarci avevo chiesto al Signore qualcosa. A Damasco sarei stata vicina di casa di una famiglia che aveva perso un ragazzo e questo ragazzo faceva parte dell’esercito siriano, l’esercito che ha fatto soffrire me e il mio paese. Ed era la grazia che ho chiesto al Signore: che potessi vederlo come un ragazzo che aveva un padre e una madre che piangono la sua morte, che soffrono per lui. E il Signore è sempre là per risponderci a questo genere di domande! Il giorno dopo il mio arrivo a Damasco siamo andati al funerale di un giovane soldato cristiano, e questo momento è stato per me un dono del Signore che mi ha aiutato a superarmi per vedere ovunque e in ognuno la gente che soffre. Quello che desidererei dire è che se vogliamo finirla con questo genere di guerre bisogno finire di vendere le armi e lasciare ai popoli di scegliere loro stessi il proprio destino. Dirò una parola un po’ forte: bisogna credere che le persone del Medio Oriente non sono degli idioti! Non possono quelli da fuori dire che vogliono la democrazia per questo o per quel paese, quando questo paese ha un partner dove non c’è democrazia. Ci fa soffrire come popoli perché abbiamo anche noi una dignità e delle idee su come mandare avanti il nostro Paese. Guardando oggi il conflitto siriano bisogna sapere che tutti soffrono. Sono stata quattro mesi a Damasco e non so a quanti funerali ho assistito. È molto doloroso perché spesso sono i giovani che muoiono da una parte e dall’altra. Per quelli che sono interessati a tutto ciò che succede in Medio Oriente ho qualche proposta: leggere le lettere di tutti i patriarchi cattolici i quali si ritrovano ogni due anni e scrivono una lettera che può dare un idea di quello che si vive nei conflitti ma anche della speranza. C’è n’è uno che ha per titolo “Insieme davanti a Dio” e parla della volontà di Dio  ovvero che noi cristiani possiamo restare là in quell’angolo del mondo insieme ai musulmani.

 

Suor Roula e suor Egilda accanto ai profughi

Pazienza e tenerezza, per accogliere veramente!

 

«Se mi si chiede un bilancio di questi giorni – inizia Roula -, trovo che questo progetto non è più solo il progetto delle piccole sorelle ma è diventato il progetto delle persone che ci hanno accolto, della Caritas, di questa diocesi, delle mamme della Casa don Puglisi, di quanti ci hanno accompagnato. La prima volta siamo andati a Pozzallo dalle suore francescane che hanno accolti minori egiziani. Erano lì sui loro materassini seduti per terra. Non appena hanno sentito il saluto in arabo si sono tutti alzati, mi hanno fatta sedere per terra e gli si sono messi tutt’intorno a cerchio». «Davanti i miei occhi – commenta Egilda mentre traduce – ho avuto l’impressione di vedere certe immagini delle illustrazioni dei catechismi quando Gesù insegna ai bambini … un’esperienza molto forte e toccante. Avevano bisogno di raccontare e scambiare le esperienze che avevano vissuto nella nave. Sono arrivati in piena tempesta e quando sono arrivati gli facevano delle domande e loro dicevano “sì”, ma senza capire a cosa rispondevano. Anche per tutti gli altri che abbiamo incontrato fuori dal centro di Pozzallo, le domande che ci facevano erano sempre le stesse: dove siamo, quanto tempo resteremo qui, perché ci obbligano a lasciare le impronte, noi non vorremo restare in Italia perché non c’è lavoro, non vorremmo diventare dei mendicanti, ma vogliamo lavorare … Io personalmente attraverso queste domande e altri dialoghi ho avuto la sensazione che la dignità di queste persone è stata ferita. Concretamente abbiamo potuto, coi nostri mezzi, fargli vedere dove si trovano disegnando delle cartine dell’Italia, facendogli vedere dov’era Roma, e tutti i vari percorsi. Ed è nel non potersi esprimere che forse la dignità delle persone viene ferita, perché vengono trattati come delle cose poi senza saperlo vengono messi su un autobus, senza saperlo il giorno prima, e senza dirgli dove vengono portati. È questo che anche a me come italiana fa male». Aggiunge Roula riportando le voci di tanti migranti ascoltati: «Parlando degli altri paesi europei magari non dicono che non ci vogliono, ma ci lasciano qui e vogliono che prendiamo le impronte qui e alla fine magari siamo messi in strada perché non ci sono altre possibilità di lavoro o altro. Nella messa abbiamo pregato perché ci vogliono delle leggi, è profondamente vero, abbiamo bisogno di leggi. Sono venuti con molte attese pensando che l’Europa li accogliesse. Certo, l’Italia non ha la risposta a tutte le attese. Se potesse essere risolta almeno la possibilità di comunicazione, sarebbe un passo buono. Purtroppo si comunica solo con le maniere dure. Gli dicono “mettete le vostre impronte e adesso se volete potete andarvene”, ma bisogna fare capire com’è la legge, come non è. Ci vorrebbero mediatori linguistici che, oltre a sapere la lingua, sentano che hanno delle persone di fronte. Ecco l’importanza della comunicazione perché dinanzi a noi vi sono persone pensanti, non ci sono degli oggetti da vestire e a cui dare solo da mangiare. Per chiudere questo discorso quello che mi ha toccato nel profondo è il modo in cui mi hanno accolto appena sentivano che li salutavo in arabo. Molte barriere sono cadute. Loro sono musulmani e vedono benissimo che io sono una religiosa cristiana, ci sono stati degli scambi molto profondi e molto belli là dove ci si è incontrati a livello umano. Dove si è potuto sentire il dolore dell’altro, là è il Signore. Ci siamo benedetti a vicenda. Per noi erano delle persone importanti». Roula accetta anche di dire qualcosa su quello che ha potuto percepire della nostra Chiesa e del nostro territorio: «Quello che abbiamo visto qui è che c’è gente che si conosce. Alla fine della messa ci si saluta fraternamente e sento la gioia delle persone impegnate con gioia: è quello che ho sentito anche nell’equipe della Caritas, della Casa don Puglisi. È un lavoro per alcuni, ma è anche una gioia, essere accanto a mamme e bambini. È più che un lavoro, è una missione e questo mi riscalda il cuore. Noi orientali pensiamo che in Europa non ci sono molte relazioni tra le persone, che ognuno vive un po’ per se e invece qui ho scoperto che c’è ancora una possibilità di relazioni e che le persone sono calorose in questa relazione». Anche Egilda ci dona una sua percezione: «Io potrei dire che guardando la realtà modicana dalla finestra della Casa don Puglisi (come diceva Marx ognuno vede il mondo a secondo della finestra dalla quale lo guarda), noto che è una città dove ci sono tanti fermenti, tante persone si mettono a servizio insieme di questa città e di questa diocesi». «Sui profughi – continua Roula – voglio aggiungere una cosa. La lettura di ieri diceva che Dio fa un cerchio di fuoco intorno al suo popolo. La seconda parlava di Dio che protegge come il pastore il suo gregge, per arrivare a Luca che dice che il Figlio dell’uomo sarà dato in mano agli uomini. Dobbiamo accettare che Dio, nostro guardiano che ci protegge, è crocifisso. In questi giorni in cui ho pregato sono rimaste impressi nel cuore i volti di queste persone davanti al crocifisso scritto dalle Clarisse di Paganica collocato nella cappellina della Casa don Puglisi: dobbiamo accettare che la croce è sempre là, ma che Dio è sempre il guardiano anche se non si vede». Chiediamo a Roula una parola sulla Chiesa oggi e sulla trasmissione del Vangelo: «La cosa più importante per la Chiesa di ieri, di oggi, di domani è che ognuno di noi possa far cadere gli idoli dalla propria vita per vivere il Vangelo e, come diceva frate Carlo, gridare il Vangelo con la nostra vita, ognuno là dov’è. Il messaggio evangelico può essere trasmesso in diversi modi: con la catechesi, col lavoro sociale, attraverso la vita quotidiana ma in tutto questo, come esorta la lettera a Timoteo, dobbiamo conservare la pazienza e la tenerezza. Laddove siamo, se vogliamo trasmettere il Vangelo, sempre pazienti e teneri! E soprattutto vivere la comunione tra i diversi membri che si completano, ognuno col suo carisma e col suo dono. Come dice Isaia 26,1 “Osservate il diritto, praticate la giustizia”: questa è la chiave per la trasmissione del Vangelo».

 

Per la Chiesa tempo di condivisione e di profezia
Serve accoglienza vera, serve una Conferenza del Mediterraneo

Una delle immagini più intense che lo scorso 30 settembre trasmettevano dolore e partecipazione era la preghiera di don Giuseppe Agosta per i morti di Sampieri. E le sue parole, autenticate dalla sua presenza, hanno subito interpretato lo sgomento per la tragedia. Ascoltare quanti si erano prodigati per accogliere com’era accaduto anche per l’Assunta a Pachino, confermava che la gente semplice e credente sa qual è la strada: la spontanea e calda partecipazione, il lasciar perdere tutto e farsi vicini. Commossa, sobria, intensa la veglia del giorno dopo a Scicli. Resta la prima nostra via: la via della commozione che si fa condivisione concreta e generosa e che va alimentata da una cultura dell’accoglienza che sa subito leggere che chi soffre è persona come noi, anzi è fratello. Nessuno allora è clandestino perché – come diceva un’anziana signora – «siemu tutti figghi ri mmma»! Con uno sguardo attento diventa facile capire che chi viene fugge da guerre e miseria, da stati-carcere, passando per viaggi disumani tra approfittatori e complicità … Ci aspettiamo che la cultura faccia la sua parte, che non si chiamino intellettuali o politici quelli che semplificano con problemi di sicurezza. E nella catechesi ci auguriamo che si precisi sempre che, se Dio è Padre, «ogni uomo – come diceva Paolo VI – è mio fratello». Inorridiamo per ogni speculazione, per quanti ne approfittano, per ogni gesto ipocrita che (mentre si ammanta di solidarietà) pensa subito a possibili finanziamenti. Per questo come Caritas, in sintonia con un diffuso sentire ecclesiale in tutto il Paese, abbiamo chiesto anzitutto una corale condivisione. E sono accadute relazioni molto calorose, di giorno e di notte, da parte di chi ha accolto anzitutto con il cuore, senza guardare ad orari o a strutture, ma mettendosi a disposizione. E per es. a Modica abbiamo avuto anche la gioia di sentire di portare a compimento, nell’ascolto e nella soluzione concreta, l’accoglienza di giovani siriani e indiani con il concorso di tanti: il loro avvocato, le piccolo sorelle di Gesù Suor Egilda e Ruola, padre Scarso, volontari del Centro di ascolto presenti quasi ventiquattro ore su ventiquattro, la coordinatrice del Portico di Betsaida, fino alla commossa e concreta partecipazione delle mamme della casa don Puglisi … E storie simili ci sono state ad Avola con don Maurizio, a Portopalo con don Gianluca, a Pozzallo con le suore francescane … Con un grazie continuo a Dio da parte di chi veniva aiutato. Questa la via: si sono aperte porte di parrocchie e case in cui già si vive la fatica ma anche la bellezza e gratuità dell’accoglienza, altri ci stanno pensando. Resta la prima via. Si potrà, con la prudenza necessaria per le cose che durano e testimoniano gratuità e qualità evangelica delle relazioni, pensare anche a qualche segno, ma non va dimenticato che i segni vivono e si sviluppano solo grazie a una corale solidarietà. Accanto alla condivisione, c’è la giustizia: vogliamo leggi giuste, va superata la Bossi-Fini, appoggiamo la proposta di Migrantes per una Conferenza del Mediterrano. La sentiamo particolarmente nostra in quanto terra di Giorgio La Pira. La sentiamo dentro il nostro cammino di Chiesa che, nel Sinodo, abbiamo scelto – «lo Spirito santo e noi» – di stare nella storia ponendo segni umili ma convinti di pace.

 

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it