UNA NUOVA SPERANZA NELLA LOTTA ALL’AIDS

In una ricerca finanziata dai National Institutes of Health Americani e dall’Amfar (American Foundation for Aids Research), ricercatori della Johns Hopkins, dell’Università del Mississippi e dell’University of  Massachusetts hanno descritto il primo caso al mondo di ‘cura funzionale’ in un neonato affetto da Hiv.

La bambina,  nata da madre sieropositiva, è stata sottoposta ad una combinazione di farmaci antiretrovirali  (terapia antiretrovirale – Art), un cocktail di Azt, lamivudina e nevirapina a partire dalla trentesima ora di vita. Si tratterebbe del  secondo caso di “guarigione” dal virus (il primo è Timothy Brown,  noto come il “paziente di Berlino”,  guarito dopo essere stato sottoposto a un trapianto di midollo osseo per curare la leucemia; il donatore possedeva però una rara mutazione genetica che impediva al virus di distruggere le cellule del sistema immunitario).                                                                                                                          La relazione sulla bambina del Mississippi è stata presentata domenica scorsa alla XX Conferenza sui Retrovirus e le Infezioni Opportunistiche (CROI) di Atlanta. Hanno presentato il caso la d.ssa  Deborah Persaud, la virologa a capo dello studio e la specialista in Hiv pediatrico Hannah Gay che ha somministrato la cura. Dopo la prima masiccia somministrazione si è assistito ad una progressiva diminuzione della carica virale.

I farmaci sono stati somministrati fino a 18 mesi, poi la madre della bambina decide di sospendere le cure e dieci mesi dopo dall’interruzione della terapia la bambina viene riconosciuta  «funzionalmente guarita», condizione che si verifica quando un paziente raggiunge e mantiene una remissione a lungo termine – in assenza di trattamento – e i test clinici standard non riescono a rilevare la replicazione virale nel sangue. “Si tratta di una condizione in cui non si può parlare di vera e propria eradicazione, in cui l’organismo è depurato in modo totale dal virus, ma di una situazione in cui si riesce a ridurre il numero di cellule infettate, a renderlo così piccolo che l’infezione non si propaga più una volta interrotti i trattamenti”, spiega  Guido Poli,  responsabile dell’Unità immunopatogenesi dell’Aids presso l’Ospedale San Raffaele di Milano che continua: “Non si garantisce la scomparsa totale del virus ma il paziente è funzionalmente guarito, tanto che i test diagnostici non riescono a rivelare più la presenza di replicazione virale e anche la risposta immunitaria si placa, gli anticorpi spariscono, perché non c’è più un bersaglio visibile da combattere”.

È una scoperta molto importante che potrebbe (il condizionale è d’obbligo) aprire nuove strade verso l’eradicazione dell’infezione nei nascituri. Ogni anno nascono, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, circa 300 mila bambini sieropositivi.

Gli scienziati preferiscono rimanere cauti, ritenendo per ora prematuro parlare di guarigione e modificazione dei protocolli medici. La pratica stabilita dall’ OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) prevede che un bimbo nato da una mamma infetta dall’Hiv venga curato con una quantità limitata di antiretrovirali per 4/6 settimane, fino a che il bimbo non risulti a sua volta positivo ad un test, nel qual caso si aumentano le dosi.  Il caso di questa bambina presenta una dinamica anomala in quanto la terapia somministrata è stata più aggressiva e repentina rispetto ai protocolli dell’OMS. Secondo i medici quindila decisione di intervenire con i farmaci sin da poche ore dopo la nascita ha impedito la formazione della cosiddetta riserva virale (cellule dormienti contenenti il virus capaci di riaccendere l’infezione a pochi giorni dalla fine della terapia e contro cui a oggi non esistono farmaci).

 “La bimba statunitense ha solo due anni e mezzo ed è dunque troppo presto per poter dire che sia definitivamente guarita. Il virus dell’Hiv potrebbe, infatti, essere ancora presente in tessuti o organi come milza, midollo e mucosa intestinale. Per “scovarlo” sarebbero necessari esami invasivi come la biopsia. Il fatto dunque – chiarisce il professor Ferdinando Aiuti – che il virus non sia più presente nel sangue della bambina non esclude al 100% che esso non possa ancora essere nascosto nell’organismo e ci vorrà del tempo per confermare la diagnosi di guarigione. Solo il 20% dei bambini si infetta alla nascita, e questo grazie alle terapie che vengono praticate sulle donne sieropositive durante la gravidanza. Si tratta dunque di casi in numero ridotto, soprattutto in Occidente”. In Italia, conclude Aiuti, “sono 1-2 l’anno i bimbi che nascono con infezione da Hiv contratta da madri che non sapevano di essere infette”.

“Potremmo immaginare, per il caso della bambina illustrato alla conferenza di Atlanta, una cooperazione tra farmaci e sistema immunitario, prima passivo, ovvero materno, e quindi attivo, della bimba, che hanno lavorato insieme per combattere l’infezione e la sua propagazione”, continua Poli.      

“Il nostro prossimo passo sarà scoprire se quanto osservato è una risposta inusuale a terapie antiretrovirali somministrate molto precocemente o se si tratta di qualcosa che davvero possiamo replicare in altri bambini ad alto rischio”, spiega Persaud.

Anche se, concludono gli scienziati, lo scopo primario nella lotta all’Hiv nei bambini rimane la prevenzione della trasmissione madre-figlio: “La prevenzione è davvero la cura migliore, e abbiamo già strategie comprovate che possono prevenire il 98% delle infezioni nei neonati identificando e trattando le donne incinte positive all’Hiv”, conclude Hannah Gay.

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