Un bambino di extracomunitari che viene a scuola da noi è più siciliano di me

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

“Ius Scholae”. Il tema è tornato al centro dell’incandescente agenda politica ad agosto 2024. Il testo di riforma originario prevedeva il riconoscimento della cittadinanza per i minorenni nati in Italia (o arrivati prima dei 12 anni) che vi avessero risieduto legalmente senza interruzioni, frequentando regolarmente almeno cinque anni di studio in uno o più cicli scolastici. 

Complicato. Eppure riconoscere la cittadinanza italiana ai minori che nascono e crescono nel nostro Paese rappresenta un’opportunità di uguaglianza. Significa concedere pari diritti a tutti coloro che sono italiani di fatto, ma non per la legge. Tuttavia fino ad oggi nessuna proposta è stata approvata e nulla è cambiato. 

Quella tuttora vigente è una legge ormai obsoleta e superata nella realtà dei fatti, per bambini e adolescenti che nascono e crescono in Italia insieme ai compagni di scuola, ma con meno diritti e opportunità. La mancata cittadinanza può complicare ad esempio l’accesso anche ad attività extra scolastiche. Nelle scuole gli studenti con cittadinanza non italiana rappresentano più dell’11% della popolazione scolastica.

L’attuale legge sulla cittadinanza, vecchia di trent’anni, non fotografa più il Paese che vedo ogni volta che entro in un’aula scolastica. La privazione della cittadinanza è un fattore che segna i vissuti e le esperienze delle nuove generazioni (figli di immigrati) per come investe la socialità e la partecipazione attiva. I bambini sono esposti a condizioni di vulnerabilità e discriminazione, spesso legate a stereotipi, luoghi comuni e costrutti socioculturali della diversità. Non riconoscere la cittadinanza italiana a questi bambini rischia di limitare il loro senso di appartenenza al territorio e alla comunità. 

Ci avete fatto caso? C’è un diavoletto che assegna ad ognuno di noi il posto in cui nascerà. Le creature che incontrerà. Le scuole che imbratterà. I nomi delle vie in cui si perderà. Le case delle notti in cui sognerà. Un dio monellino. Un po’ destino. Il mio ha deciso che nascessi a Ragusa. Un’amena località del nord Africa. In un’isola che, a dire la verità, ha un piede in un continente e una rotula nell’altro. Indecisa. 

A volte penso: “Se fossi nato, per dire, a Bruxelles! Sarei cittadino del mondo nel cuore più moderno dell’Europa.” 

Poi entro nella scuola in cui lavoro. Come oggi. E vedo che in una classe, una bambina appena sbarcata da un altro pianeta, non spiccica una sola parola di italiano. Ma imparerà presto. Perché attorno agli occhi vispi di un banco di un nuovo inizio, le si agita un mondo, fatto certamente di colorosi e calorosi compagni e preziosissimi insegnanti, ma anche di pedagogista, mediatore culturale, assistente sociale e, per l’appunto, di psicologo (mai nato a Bruxelles), tutte figure volute anche quest’anno dalla sensibilità dell’Amministrazione e dai politici del mio Comune. Tutti avvinti a un unico compito: accogliere quella bambina, includerla, assisterla nel grande viaggio verso quella felicità che è un diritto dell’essere umano. Semplicemente. Necessariamente.

È in rari momenti come questo che realizzo per un attimo di essere stato fortunato a svegliarmi a Ragusa in quell’ospedale di parecchi decenni fa. Perché il dio dei monelli non ha voluto farmi nascere a Bruxelles, ma ha portato un arabesco di civiltà e di progresso nel posto in cui sono nato. Come un fiore nel deserto. E almeno per questa volta, lo ringrazio. Ricordandogli che comunque rimane un gran monello.

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