Tre giorni insostenibili dell’essere ragusani

La rubrica dello psicologo a cura di Cesare Ammendola

Mi ha turbato. Questa tre giorni di ordinaria tristezza e angoscia. L’insostenibile leggerezza dell’essere iblei. Anche no. Basta così. 

Si cominciò con gli odiosi focolai della movida aggressiva e diversamente civile a Marina: certe notti di rissa e tensione, lancio di bottiglie e sedie e spruzzi speziati e vandalismi vari  (protagonisti stranieri e ragazzi italiani di fuori provincia) in un’area vicina al porto, che necessita più che mai di controlli più assidui ed efficaci. 

Diciamocelo. La psicopedagogia è bella, ma a un certo punto occorre la legge. La vigilanza. La fermezza. Il tempo è scaduto. La sicurezza è un imperativo indifferibile. È necessaria un’azione di rete tra tutte le istituzioni e forze. Prevenire è possibile. Ora indispensabile. Il porto ha bisogno di angeli custodi.

Sul posto sono intervenuti subito le volanti della polizia e una pattuglia di carabinieri della stazione locale, che hanno tentato di ripristinare l’ordine.

Lo sappiamo. Nel fine settimana molte persone provenienti da città limitrofe inondano la località turistica. Bene. Ma a volte l’invasione benefica è incontrollata. 

Sulla stessa scia sulfurea, i furti di biciclette in veranda e persino di un’imbarcazione. Una barca al porto. Non è “Lercio”. È la realtà. 

E a completare lo scenario su uno sfondo di mestizie, le fumarole e gli illeciti ambientali. Il dare fuoco ai rifiuti agricoli che derivano dalla dismissione delle serre (a fine stagione). Un incendio antiecologico e antiestetico che riguarda un bell’arco di costa e genera un forte impatto ambientale e per la nostra salute. Quasi venti titolari di aziende agricole sarebbero stati denunciati per le ipotesi di reato.

E ancora, in un’escalation del tragico, la morte del ragazzo di trentotto anni, travolto nella notte da una Bmw, che lascia la moglie e quattro figli. Sarebbe stato investito, se le notizie sono attendibili, dinanzi agli occhi della moglie incinta e dei due figli di nove anni. Un giovane che, peraltro, come in un sortilegio kafkiano, è parente intimo della famiglia dei due cuginetti (Alessio e Simone) morti tragicamente in strada l’11 luglio del 2019. E proprio l’11 luglio ricorreva appunto l’anniversario della morte dei due piccoli cugini. Un dramma nel dramma infinito, un lutto per l’intera città che ancora una volta si stringe attorno alla stessa famiglia.

Ma la notizia che mi ha toccato, se possibile, ancora di più è l’ultima. La più recente. È stato trovato senza vita il corpo della donna di soli 22 anni, scomparsa di casa dal giorno prima. Tutti avevano cercato la ragazza e sui social era esplosa la solidarietà e la condivisione. Sincere e lodevoli. 

Io non la conosco. La rispetto con tutta la tenerezza che posso. Non conosco la sua personalissima parabola su questo pianeta. Il mondo che ha abitato e attraversato negli anni. Il suo mondo. Ecco perché non dirò nulla della sua vita. E vi risparmierò ipotesi, letture e predicozzi psicoanalitici e pipponi socio-antropologigici. Non userò lei per esibire presunte competenze critiche sulla società di oggi. O per sciorinare conoscenze e luoghi comuni e banalità sulla fluidità (e incomunicabilità e fragilità e superficialità e solitudine) nella società odierna, per come è cambiata e declinata (?). 

Perché la verità è che io non conosco, non so e non ho capito. E non ho indimenticabili commenti in tasca. Per i più sontuosi commenti sapete già a chi rivolgervi: l’Università di questa GranFava di Facebook.

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