È stata inaugurata a Vittoria la nuova area di Osservazione Breve Intensiva (OBI) presso il Pronto Soccorso dell’ospedale “Guzzardi”. L’area è stata intitolata alla memoria di Giuseppe Morana, storico dirigente amministrativo dell’ospedale, alla presenza dei familiari e delle autorità locali. La cerimonia ha visto la partecipazione del Direttore Generale dell’ASP di Ragusa, Giuseppe Drago, della […]
RAGUSA: AMORE E MATRIMONIO NEL SECOLO SCORSO GHILATU PIERSU
06 Feb 2017 21:25
Sposare i figli è sempre stato un assillo delle famiglie perché col matrimonio e l’indipendenza economica i giovani entravano nella fase adulta della vita. Perciò erano parecchi i riti e le situazioni messe in atto dalla società perché i giovani potessero incontrarsi, conoscersi e innamorarsi. La domenica pomeriggio era dedicata alle visite delle famiglie tra parenti e amici e per la festa di San Giovanni Battista, il 29 agosto a fine annata agraria, c’era la cosiddetta sfilata, e le giovani e i giovani indossavano il vestito buono per farsi vedere nel corso della processione e nel passeggio in via Roma.
Lo stesso rito del matrimonio col suo percorso specifico favoriva altri incontri e innamoramenti. Cominciava con a trasuta ro zitu, l’entrata del fidanzato o fidanzamento in casa ovvero con la cerimonia che segnava il passaggio dal fidanzamento di nascosto (ziti ammucciuni) al fidanzamento ufficiale. Il fidanzato entrava in casa, veniva accolto. Avveniva di sabato sera e il fidanzato portava l’anello con brillante, se ne aveva la possibilità, con cui si impegnava nei confronti della fidanzata e della sua famiglia. Erano presenti parenti e amici ed era previsto il ballo, che si ripeteva per tutti i sabati fino al matrimonio. I giovani (i picciutti) ballavano sotto gli occhi vigili dei genitori, dei grandi (i ranni), seduti attorno alle pareti della stanza vuota. Sbocciavano nuovi amori. I genitori vedevano e capivano e, nel caso di approvazione, nelle settimane successive, così per caso, si verificavano delle visite di cortesia tra le famiglie degli innamorati. Poi, durante il fidanzamento ufficiale, gli incontri si intensificavano. Non erano incontri salottieri, che i salotti esistevano solo nelle case dei nobili e dei borghesi, ma vera e propria partecipazione alla vita e ai lavori della casa della bottega della masseria. I promessi sposi si prestavano alle faccende. Gli ospiti si schermivano con frasi di circostanza: «Non è il caso. . . ti sporchi il vestito buono. . . facciamo da noi» ma il coinvolgimento era voluto e accettato perché forniva gli elementi per meglio conoscersi valutarsi stimarsi amarsi.
Se in mezzo c’era poi una delle feste grandi, Natale o Pasqua, le due famiglie preparavano insieme le pietanze rituali: a Natale si sacrificava il maiale e si preparavano dolci a base di miele; a Pasqua toccava all’agnello e i dolci erano a base di uova, perché in primavera le galline ne producevano di più. Si lavorava insieme e intanto si confrontavano ricette, si perfezionavano tecniche, si raccontavano storie e situazioni e stesse pietanze, come a ‘mpanata (focaccia con carne di agnello) o a ghiughiulena (semi di sesamo cotti nel miele e nello zucchero), venivano preparate con ricette che differivano da ceti a ceti, da famiglia a famiglia.
Si costruiva così, con grande cura, il matrimonio come sequenza di riti, di contatti, di conoscenza reciproca che coinvolgeva i fidanzati assieme alle loro famiglie e all’intera comunità dei parenti e degli amici. I riti servivano ad approfondire la conoscenza reciproca, a smussare spigolature, ad affiatare modi di fare e di essere, a imparare a convivere, a consolidare i rapporti, a preparare la piattaforma su cui costruire e sviluppare la nuova famiglia. La combinazione del matrimonio all’interno dello stesso ceto sociale era ovvia, spontanea e voluta in quanto le probabilità di buona riuscita erano più alte perché gli sposi ritrovavano nella nuova famiglia gli stessi modelli culturali e le stesse atmosfere in cui erano cresciuti, vi appagavano le aspirazioni e le aspettative, vi si riconoscevano, vi riaffermavano e consolidavano la propria identità. Non per caso il proverbio: moglie e buoi dei paesi tuoi.
Non sempre andava tutto liscio, capitava che sorgessero disaccordi e talvolta vere e proprie liti con manifestazioni rumorose e scomposte che coinvolgevano il vicinato e il parentado in una pubblica “rappresentazione teatrale”, in una sorta di “teatro sociale” che aiutava a rielaborare tensioni, paure, debolezze, aggressività, oppressioni, frustrazioni, a ricomporre l’armonia e a consentire agli sposi di convolare a felici nozze.
Matrimonio combinato. Non sempre si sviluppava e maturava il percorso spontaneo e naturale della nascita dell’affetto tra due giovani. Per vari motivi. Perché i giovani non riuscivano a sviluppare appropriata iniziativa o perché non tutte le famiglie avevano la giusta attenzione al futuro dei loro figli o perché non sempre le condizioni consentivano una adeguata rete di relazioni all’interno del contesto della loro vita sociale. Allora si ricorreva al matrimonio combinato. Le famiglie, i grandi (i ranni: i genitori, qualche parente autorevole e anche i figli già sposati) combinavano il matrimonio, spesso, se non sempre, all’insaputa degli interessati. La combinazione avveniva all’interno dello stesso ceto sociale. A cosa avia aviri i pieri pi caminari, la cosa doveva avere i piedi per camminare, doveva cioè avere probabilità di riuscita: un giovane nullatenente non poteva pretendere la mano di una ragazza di ceto sociale più elevato. Si ricorreva a un messaggero, professionale o amico o parente autorevole, che conduceva le “trattative” e a cui, ad affare concluso, spettava emblematicamente un paio di scarpe quale compenso per la lunga spola che aveva dovuto tessere tra le due famiglie. Il solito rituale, durante il periodo del fidanzamento, serviva a verificare e a gettare le basi per la nuova unione.
E l’amore? L’uomo, nei campi sul carro alla bottega al cantiere alla miniera, lavorava pensando al rientro a casa e all’affetto che la sua donna gli profondeva in modo pregnante attraverso la tenuta in ordine della casa, la pulizia dei vestiti, la preparazione di buone pietanze, l’educazione dei figli.
La donna governava la casa e si sobbarcava alla routine dei lavori domestici pensando al duro lavoro del suo uomo dal quale era garantita l’esistenza e la dignità sua stessa e dell’intera famiglia. Nella canzone «Mirrina», riportata più avanti, Salvatore, torturato dalla sete sotto il sole cocente, si consola sapendo che la sua Nina sta adoperandosi come meglio accoglierlo.
Forte è nei siciliani il sentimento della famiglia. Il padre tiene il governo assoluto e indiscusso di essa; la madre governa la casa, ne prende il maggiore interesse e comanda sui figli, quasi per facoltà del marito, cui essa ubbidisce ed ama anche quando egli non lo meriti. Per lui ella inculca affetto e venerazione nei figli, non solo perché padre, ma perché è colonna della casa: “Casa senza birritta / nun pò stari addritta”. [La casa nella quale non c’è l’uomo a reggerne le sorti, (e qui l’uomo è simboleggiato dalla birritta, la coppola) è condannata a crollare. Nota dell’autore] Giuseppe Pitrè
‘A pici
Bedha, cchi duormi pracita e latina! cuomu na pupa, ca nun ha pinsieri: la facciuzza ri cira quant’è fina, cira ca lu so sciauru è di meli. Iu mi susii cciù prima stamatina, li sonna miei nun ci fuorru sinceri! Tuttannotti ca fu vota e rimina, pinsirazzi cciù amari ri lu feli. Lu sancu squetu cch’è ca rivugghia, ‘n sacciu l’arma cchi avia pena e diluri: ruommi, ca si filici, bedha mia! Nun t’arrisbigghi si nun è lu Suli, ch’è lu to amanti e n’happi gilusia, cà travagghiu a lu scuru, pirriaturi.
– Tuzza, pacienza: unn’è a truscitedha? – Dduocu – Unni, dduocu? – Viri ntè casciola. – E cci mintisti o no quarchi ulivedha ppi cumpanaggiu? ca stu pani è sola, ora! – Na cipudduzza. – Ruommi, bedha, ruommi, ca mi ni vaiu: lu tiempu vola. Sulu, cci rassi ccà ru’ vasunedha a li figghiuli. . . A tia! mannili a scola: Ti raccumannu, nun li fari ciàngiri: se vuonu i robbi nuovi e cci li minti, basta ca puoi criscissiru arucati.
– Vinni l’ura: arrusbigghiti, Turidhu! Lu patinnuostru sona la campana. Susiti. . . Unn’è ca ti nn’isti, miatidhu? La vuci mia ti rinesci luntana. Nun sienti la matruzza ca ti ciama, ti la scurdasti sula nta ‘n cantidhu: truvasti fuorsi a cu cciu miegghiu t’ama, ma na lu suonnu, figghiu, picciridhu! Susiti, va! ch’è tardu. A mienzu liettu, ca t’haiutu a bistiriti. . . Lu sai ‘n mienzu a lu pani cch’è ca ti cci mettu? Ru’ purpittuli. Buonu oggi ci vai. Ti raccumannu: attentu! E nta lu piettu la matri sempri, e cciu varagnu n’hai.
Vann’Antò, poeta ragusano
La pece ovvero la miniera d’asfalto. Bella, che dormi placida e lieve! / come una bambola, che non ha pensieri: / la facciuzza di cera quant’è fina, / cera che l’odore suo è di miele. / Io mi alzai prima stamattina, / i miei sonni non sono stati sinceri! / Tutta la notte a rivoltarmi, / tristi pensieri più amari del fiele. / Il sangue inquieto chissà cosa ribolliva, / non so che pena e dolore aveva l’anima mia: / dormi, felice sei tu, bella mia! / Nun ti svegli se non è il Sole a svegliarti, / ch’è il tuo amante e io ne ebbi gelosia, / poiché lavoro al buio, minatore. // – Agatuzza, pazienza: dov’è il fagottino? / – Lì – Dove, lì? – Vedi nei cassetti. / – E ce l’hai messa o no qualche olivetta / per companatico? ché questo pane è suola, / ora! – Una cipollina. – Dormi, bella, / dormi, ché me ne vado: il tempo vola. / Solo, ci darei due bacetti / ai figlioli. . . O tu! mandali a scuola: / Ti raccomando, non farli piangere: / se vogliono i vestiti nuovi e mettiglieli, / l’importante che crescano educati. // – E’ venuta l’ora: svegliati, Turidu! / Il pater noster suona la campana. / Alzati. . . Dove te sei andato ieri sera, beato? / La voce mia ti riesce lontana. / Non senti la madre tua che ti chiama, / l’hai scordata sola in un cantuccio: / trovasti forse chi meglio t’ama, / però nel sonno, figlio mio bambino! / Alzati, via! ch’è tardi. Seduto a mezzo letto / ch’è t’aiuto a vestirti. . . Lo sai / in mezzo al pane cosa ti ci metto? / Due polpettine. Bene oggi ci vai! / Ti raccomando: attento! E dentro il petto / la madre sempre, e più guadagno ne hai.
Giovanni Antonio Di Giacomo |
Se non è amore questo, cos’è amore allora?! |
Si può parlare di amore anche nei matrimoni combinati?! La nascita dell’«affetto» tra i due sposi era presa in considerazione e l’esperienza aveva dimostrato che poi l’affetto sarebbe nato tant’è che s’è coniato il proverbio, u liettu porta l’affiettu [il letto porta l’affetto] e infatti il coinvolgimento sessuale aiuta.
Nel linguaggio moderno, possiamo dire che il matrimonio combinato equivale all’attuale agenzia matrimoniale o all’incontro via internet.
Dal sessantotto fino a ora sento ripetere da relatrici e anche relatori che, prima, la donna non aveva libertà, era costretta in casa eccetera eccetera senza un’ombra di ripensamento alla luce del disastro in cui versano tante unioni e tante famiglie. Ma di quali donne parlano? La moglie del minatore, del bracciante, dell’artigiano stava in casa ma vedeva il sole, intrecciava rapporti con le vicine, governava la casa e i figli mentre il marito stava in miniera, in campagna, in bottega. Chi dei due aveva più libertà? Va ricordato che i mariti minatori, braccianti, operai consegnavano per intero la paga alla moglie che l’amministrava.
Due aneddoti realmente accaduti sintetizzano emblematicamente la situazione dell’epoca. Il primo si riferisce al periodo tra le due guerre mondiali e racconta di un giovane massaro che, rientrato un sabato in città per il riposo settimanale, riceve la comunicazione: «Ti abbiamo fidanzato, indossa il vestito buono che andiamo in casa della fidanzata». E così la sera avvenne l’incontro tra le due famiglie con i promessi sposi seduti di fronte nelle pareti opposte della stanza vuota e i parenti tutt’attorno. I due giovani erano alquanto timidi e nel corso dell’incontro ebbero modo di esprimere qualche frase banale e di scambiarsi qualche fugace occhiata dalle loro posizioni rese ancora più distanti dall’imbarazzo e dalla debole luce della candela a olio. Le famiglie, legate da lontana parentela, erano molto contente dell’«affare» e perciò restarono soddisfatte della serata e si diedero appuntamento per il sabato successivo. Ora successe che, durante il corso della settimana, la famiglia della fidanzata addivenne all’idea che quel matrimonio faceva più al caso dell’altra figlia, anch’essa da maritare, e così il sabato successivo nella stessa sedia, nello stesso punto della parete della stanza fu fatta sedere questa mentre l’altra andò ospite da una parente. Il fidanzato e tutta la sua famiglia non si accorsero dello scambio e continuarono a essere soddisfatti dell’«affare». Trascorso il tempo stretto del fidanzamento i due giovani si sposarono, ebbero figli e vissero felici e contenti.
Il secondo aneddoto si riferisce all’estate del 1943 subito dopo lo sbarco degli americani in Sicilia. Si diffuse allora la preoccupazione che i soldati portassero via le ragazze e così le madri diedero alle figlie il proprio anello nuziale. Successe che, in un gruppo di persone, curiose ed eccitate ma anche dubbiose e timorose, che s’era formato attorno ad un soldato americano di origine siciliana, c’era in prima fila una giovane poco più che ragazza con all’anulare una fede di brillantezza tutt’altro che novella. Il soldato incuriosito e forse anche insospettito chiese alla ragazza: «Sei sposata?» «Sì», rispose questa prontamente. «Chi è tuo marito», domanda allora il soldato. La ragazza in forte imbarazzo, si guardò attorno e indicò il giovane che era accanto a lei. «Allora bacialo», incalzò il siculoamericano. L’imbarazzo a questo punto accomunò tutti i presenti e diventò anche tensione. Il gesto, all’epoca, era molto compromettente. Il soldato insistette e la ragazza, non avendo via d’uscita, baciò, davanti a tutti, il giovane. Successe così che i due giovani, l’uno accanto all’altra non per puro caso, si fidanzarono, si sposarono, ebbero figli e vissero felici e contenti.
I riti continuavano anche dopo il matrimonio con le riunioni frequenti delle famiglie, con i pranzi in comune alle feste comandate e con tutte quelle “noiosità” che la contestazione sessantottesca rigettò decisamente ma non altrettanto impunemente ché quei riti accompagnavano sostenevano aiutavano la coppia a superare gli screzi gli attriti i dissapori. Vere e proprie dinamiche e terapie di gruppo. Cos’erano i riti se non il tempo che l’individuo spendeva per la cura e il rafforzamento della rete di relazioni che coinvolgeva i parenti, gli amici, i vicini e l’intero villaggio e che se da una parte creava vincoli ai singoli e alle coppie e talvolta invadeva la privacy, dall’altra univa rafforzava sosteneva attutiva smussava.
«Che cos’è un rito?» disse il piccolo principe.
«Anche questa è una cosa da tempo dimenticata», disse la volpe. «È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora diversa dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo fino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza».
Da Il Piccolo Principe di Antoine De Saint – Exupéry
La presenza coinvolgente, forte e attiva della famiglia nella relazione affettiva dei giovani non era arretratezza ma forma, certo arretrata e da superare, della giusta attenzione e consapevolezza che si aveva verso la complessità del rapporto tra uomo e donna e la difficoltà del costruire una famiglia. Col sessantotto e quello che è venuto dopo si è buttata l’acqua sporca con tutto il bambino ché complessità e difficoltà permangono ancora e nulla si è elaborato, in cambio dei vecchi riti, a supportare i giovani nel cammino verso la costruzione non facile della famiglia.
La causa dei tanti divorzi dell’epoca attuale credo sia da ricercare non nel lavoro della donna, che la donna ha sempre lavorato; non nella emancipazione della donna, che la donna, per le relazioni che tesseva, aveva un ruolo importante e godeva di stima e rispetto grandi; non in una generica quanto immotivata presunta superficialità delle nuove generazioni; piuttosto nel ruolo ridotto e asfittico di produttore e consumatore che la società attuale riserva ad ognuno di noi; nella conseguente perdita dei modelli sociali e culturali che presiedevano alle relazioni tra le persone; nella caduta dei riti che quei modelli sostanziavano. Non è un caso se i nuovi riti, dalle feste di compleanno alle varie feste degli innamorati della donna del papà della mamma. . ., si imperniano principalmente, se non esclusivamente, sul consumismo: pressoché unica identità, se identità può chiamarsi, che la società capitalistica tecnicamente organizzata ci riserva.
Si viveva allora in un mondo di armoniosa serenità?! No, ché discordie rivalità ostilità. . . ci sono state ci sono e ci saranno sempre, solo che i modelli sociali e culturali che presiedevano alle relazioni tra le persone erano più collaudati e radicati in quanto sedimentati nel corso dei secoli. È sbagliato considerarli arcaici e generati da ignoranza e ristrettezza mentale e bene sarebbe invece intenderne la pregnanza e trarne indicazioni per la costruzione dei nuovi paradigmi con cui interpretare e governare la mutata situazione. Ammesso si riesca nell’intento! C’è infatti il rischio che la frenesia dei mutamenti socio–economici e la commistione generata dal contatto con altre culture e stili di vita non ci consentano di pervenire a nuovi modelli né di lasciarli sedimentare nel corso del tempo e quindi assimilarli ed interiorizzarli lasciandoci così sempre più scivolare nella incapacità di capire cosa ci accade intorno, sempre più poveri culturalmente e sempre più in balia di stimoli, suggestioni, mode dettate e imposte da questo o quello.
Certo, nei casi in cui il matrimonio, nonostante tutti i supporti e i puntelli forniti dai modelli e dai riti, non reggeva, per la moglie era più dura in quanto, non essendo contemplata la figura della donna single dotata di lavoro e reddito autonomo, quasi sempre era costretta a subire le pesanti conseguenze della mancata armonia familiare. Tuttavia ho conosciuto casi – mi riferisco a fatti avvenuti all’inizio del ventesimo secolo – di donne, anche dei ceti sociali più bassi, che hanno fatto scelte coraggiose e sono riuscite a emanciparsi e a godere del rispetto e della stima della società. Eccezioni?! Certamente! E poiché non può certo affermarsi che «divorziare è bello» resta tutto aperto, per i singoli e per la società, il problema di aumentare la percentuale delle unioni riuscite. A meno che la sequenza dei riti che vanno dai regali per San Valentino alle spese per la cerimonia e per metter su casa fino a quelle per gli avvocati, i giudici e quanti ci vivono attorno non sia una delle tante forme di consumo più o meno forzato dentro cui siamo costretti a vivere.
La gioia dell’americano / che si sente uguale a un altro milione di americani / nell’amore per la democrazia: / questa è la malattia del mondo futuro. / Quando il mondo classico sarà esaurito, / quando saranno morti tutti i contadini / e tutti gli artigiani, / quando l’industria avrà reso inarrestabile / il ciclo della Produzione e del Consumo, / allora la nostra storia sarà finita. / In questi urli / in queste adunanze sterminate / in queste luci / in questi meccanismi / in queste dichiarazioni / in questi eserciti / in queste armi / in questi deserti / in questo irriconoscibile sole / incomincia la nuova preistoria. Pier Paolo Pasolini, (1967)
Ragusa, 25 giugno 2010
Ciccio Schembari
Articolo pubblicato sul n. 60/2010 “Amore” della rivista ondine www.operaincerta.it
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