PROFETI DISARMATI DI UNA NUOVA UNITA’ D’ITALIA

Si continuano a gestire le politiche sociali verso il fenomeno migratorio come se non ci toccassero da vicino e come se non riguardassero strutturalmente e strategicamente il futuro del nostro Paese. Gli immigrati con il loro arrivo non hanno acceso negli Italiani nuove speranze ma solo paure, problemi e preoccupazioni. Hanno fatto esplodere una crisi già in atto esistente sul piano culturale e antropologico, sociale e politico ma non religioso. Il cristianesimo di fronte agli immigrati ha fatto e continua a fare con generosità e coerenza il suo dovere di fedeltà all’Amore di Dio verso i più poveri. La reazione sul piano politico è stata invece dura, sul piano sociale “dialettica”, ma sul piano religioso invece largamente ospitale, solidale e fraterna. La lezione di Rosarno a riguardo è stata chiara ed emblematica, anche se rimane ancora una ferita aperta. Si è dimostrato che in realtà non siamo in guerra contro i criminali che sfruttano i lavoratori immigrati, italiani e stranieri, ma con gli immigrati, che cercano un lavoro e una possibilità di futuro per loro e per i loro figli e aspirano a diventare cittadini italiani a pieno titolo. La vita sociale di questi uomini, che dovrebbero esercitare diritti umani universali e riconosciuti, è ancora difficile, dura e amara sino a costringerli di fatto e di diritto a lasciare il nostro Paese. Imparano da noi che la difesa dei propri privilegi materiali è più importante del diritto e del dovere dell’ospitalità, della solidarietà umana e della giustizia sociale tra persone dello stesso valore ontologico. La campana della prossima ricorrenza del 150° anniversario del Risorgimento Italiano suonerà anche per loro?

Il Italia come in Francia, secondo una recente ricerca. “il denaro è al primo posto tra gli argomenti che i genitori affrontano con i loro figli”. In generale il dialogo tra gli uomini riguarda innanzitutto i quattrini, poi il consumo, il successo e il piacere. Stiamo costruendo una società dura, competitiva, ostile, fortemente selettiva, inospitale e “riproduttiva” sul piano delle disuguaglianze sociali ed economiche. Stentiamo a comunicare perciò l’anima cristiana del nostro popolo perché abbiamo monetizzato tutto e non investiamo sulla vera felicità, quella comunitaria e personale. Cresciamo i nostri figli privilegiando la loro sicurezza materiale e le nostre comodità borghesi senza possibilità di rischi e di avventure. Questo è il brutto segno spirituale dei tempi grigi e sordi che nel cuore delle relazioni della Nazione stiamo vivendo. Abbiamo spogliato l’Italia di senso storico, di vocazione specifica e di idealità comune. Ci siamo tuffati nell’attimo fuggente del “tirare a campare”, dell’effimero e del consumo come rappresentazione vistosa di un proprio mondo vitale, individualistico “cinico e ipocrita”. Siamo diventati dei bravi borghesi e farisei, sostanzialmente indifferenti alla solidarietà umana, anche se la nostra Chiesa fa il suo dovere al posto nostro.

A che punto di contraddizione intima è arrivata la nostra identità cristiana come capacità di relazionarsi e di prendersi cura dei più vicini e dei più bisognosi? Abbiamo urgentemente bisogno di un’abbondante Pentecoste come nuovo inizio e come principio di radicale conversione al Cielo per capire la giusta misura di valore della nostra terra che non è ancora un dolce rifugio né una piccola Betania sulla via di Emmaus.

Il problema non è quello di continuare a gridare ancora in modo ipocrita: “o tempora! o mores!”: per l’avvento di una società senza valori ma prendere coscienza della morte dell’uomo come persona umana fraterna. In seguito all’oscuramento di Dio Padre si è annebbiata la nostra vita di fratelli e le nostre città sono diventate più invivibili, indifferenti e ostili perché più lontane dal cuore di Cristo.

Ci vuole una rivoluzione copernicana nelle politiche sociali per curare le relazioni sociali “malate” e renderle più amicali e aperte all’accoglienza spirituale e materiale a partire da quelle verso il fenomeno migratorio per il quale bisogna finalmente passare dalla logica dell’emergenza a quella della programmazione della promozione sociale e della inclusione civile e democratica. Il clandestino è percepito ancora come un pericoloso individuo da espellere e non da accompagnare e aiutare per farlo diventare non solo cittadino ma, soggettivamente e oggettivamente, anche nuovo concittadino, stabile e residenziale artefice di futuro per il nostro Paese.

Per troppo tempo l’approccio ermeneutico e politico al fenomeno migratorio è stato condizionato da queste paure e dal predominio del modello esplicativo “economicistico” che ha messo in ombra altre analisi teoriche più complete e feconde sul piano antropologico in grado di comprenderne la complessità umana e sociale favorendone l’integrazione democratica.

Per questo secondo Darren P. Smith, uno degli autori del Jems degli USA (Journal of Ethnic and Migration Studies!) sono prevalse ricerche a carattere “quantitativo” e si sono privilegiati dati economici statistici e ignorate le basi socio-culturali dei reali processi decisionali sul piano politico. Solo recentemente si sono affermati approcci “qualitativi” multifattoriali prendendo in considerazione anche le componenti non monetarie nell’analisi della migrazione sia individuale che del gruppo familiare. Cambiare modello di riferimento ermeneutico significa anche qui passare dal punto di vista centrato sull’osservatore autoctono e pauroso a quello focalizzato sull’osservato e bisognoso (l’immigrato, la famiglia immigrata) disposto realmente a cambiare occhi e lenti per vedere meglio e ad iniziare un proprio cammino di adeguato e dignitoso inserimento “civico”.

A tutt’oggi manca ancora un progetto di reciproca transculturalità e domina la scena il piccolo assistenzialismo burocratico senza vero rispetto dei diritti umani universali degli immigrati. Non si riconosce “un diritto pieno” di entrata degli immigrati nel nostro Paese ma solo quello di uscita dal loro paese di provenienza (jus migrandi ma non vivendi!). Una più umana e moderna scelta strategica dovrebbe mirare ad una vera politica sociale verso la famiglia immigrata, alla scolarizzazione e all’accompagnamento al lavoro regolare per integrarli nel tessuto connettivo del Paese. In tempo di crisi si tratta di impiegare meglio i soldi assegnati dallo Stato, dalla Regione, e dall’Unione Europea per specifici e mirati progetti di inclusione. E’ una questione necessaria e urgente anche se complessa: culturale ed educativa, politica e sociale di lungo respiro quella della scelta della promozione umana e dell’inserimento “guidato” perché richiede il coinvolgimento in rete delle istituzioni democratiche e dell’associazionismo sociale e religioso. Non si devono più ghettizzare i quartieri delle metropoli e le strade degli immigrati, singoli o a gruppi, né ignorare il loro associazionismo etnico e la rete delle famiglie immigrate alzando barriere e muri contro l’integrazione. La mancanza poi di iniziative specifiche di Solidarietà Donna e di assistenza agli anziani immigrati, di luoghi di socializzazione interculturale per i ragazzi e i giovani, di dialogo spirituale e religioso non fa incontrare i cuori e non favorisce certo l’obiettivo di diventare insieme veri “concittadini” sul piano mentale e sul piano sociale prima che anagrafico.

Le ricerche effettuate dimostrano (cfr. Tiziana Caponio – Asher Colombo) che il processo di integrazione “locale” anche nel Sud del nostro Paese mira agli inserimenti in settori produttivi “di nicchia” come il lavoro domestico delle badanti e delle produzioni stagionali. Si riproduce così il lavoro precario, corto e sommerso e le politiche sociali locali sono sempre più miopi e cieche. In verità la penetrazione degli immigrati continua ad essere contrastata dai pregiudizi ed ostacolata dal cinismo utilitaristico.

E’ fuorviante e negativo continuare a concepire sul piano politico e culturale l’immigrazione come un ennesimo problema di sicurezza sociale, perché si parte da un framing dell’immigrato come potenziale deviante nei confronti del quale l’assistenza deve essere accompagnata da politiche repressive. In senso lato si dice che il “policy frame” prevalente delle giunte di centro-sinistra è stata l’accoglienza indiscriminata con un afflato ideale di apertura incondizionata all’esercizio dei diritti umani e della giustizia sociale. Il “policy frame” prevalente delle giunte di centro-destra rimane ancora quello dell’assistenza “minimale” che si alterna ad un “frame” della repressione. La relazione con il privato sociale sulla questione della integrazione oscilla quindi dalla collaborazione per promuovere servizi di aiuto, sostegno e accompagnamento alla ghettizzazione assistenzialistica in quanto nei governanti domina la cultura assimilazionista. Bisogna dare agli immigrati la parola mediante la promozione linguistica democratica per la quale ci sono diversi modi e non solo uno di comunicare. La lingua infatti serve a far parlare di giustizia e di merito i destinatari delle politiche sociali di integrazione locale. I servizi sociali vanno cogestiti per evitare la burocratizzazione spersonalizzante e favorire un legame tra welfare ufficiale ed etnico-familiare. Lingua e servizi più umani preparano una cittadinanza più inclusiva e democratica. La città con alloggi e luoghi di socializzazione aperti, puliti, fruibili e non spazi ghetto è feconda di più salde relazioni civili. Decisiva diventa così per autoctoni e immigrati la formazione di base al dialogo interculturale, con l’educazione di una mentalità multiculturale soprattutto nella Scuola e nei quartieri della città. Per fare questo occorre superare la fase dell’incontro del folclore etnico e assumere la diversità come risorsa di sviluppo e di arricchimento umano della comunità cittadina. La comunità legale è ormai “colorata” nel suo presente e nel suo futuro come la nuova Patria.

In linea di principio, ad esempio, “la famiglia straniera” trova nella nostra Costituzione e nel nostro ordinamento la stessa protezione riconosciuta alla famiglia italiana. La tutela è accordata infatti indipendentemente dalla cittadinanza dei coniugi purché sia “società naturale fondata sul matrimonio”. Il che esclude in verità la tutela della famiglia poligamica.

In linea di fatto l’uguaglianza incontra ancora discriminazioni e difficoltà nell’accesso e nell’intervento dei servizi sociali (che è limitato prevalentemente ai minori!). L’assegno per il secondo figlio è previsto solo per la famiglia italiana.

L’interfaccia delle politiche sociali non possono essere più solo gli individui isolati ma devono riguardare anche le loro famiglie, cioè mogli, mariti e figli. Ormai nel Paese c’è un grande aumento degli alunni stranieri ed anche, in misura relativa, maggiore affluenza di puerpere straniere negli ospedali. E’ in atto un mutamento della composizione della popolazione immigrata nell’Italia di oggi e della quantità e natura dei suoi progetti di vita e dei relativi e crescenti bisogni relazionali.

Bisogna prendere atto di questa situazione oggettiva e scegliere la Scuola come primo bandolo della matassa e crocevia fondamentali delle relazioni sociali ad intra e interfamiliari. L’offerta educativa continua ad avere un indubbio carattere comune di priorità tra i servizi sociali in favore delle famiglie immigrate e di quelle italiane. L’attivazione dei corsi di lingua italiana deve riguardare innanzitutto i genitori degli alunni stranieri e successivamente tutti i nuclei familiari coinvolti (italiani e stranieri). La presenza di minori nelle scuole e nella vita delle città rappresenta quindi un aspetto di “mutazione qualitativa” della nostra società e deve diventare un nodo centrale e strategico del dialogo sulle politiche sociali verso lo sviluppo globale del nostro Paese.

Porre al centro dell’attenzione e delle politiche sociali la famiglia immigrata significa coinvolgere quindi le reti etniche presenti nel territorio in termini di solidarietà ed evitare la deriva della ghettizzazione urbana che spesso è favorita più o meno consapevolmente anche dall’inerzia burocratica dei servizi sociali dello Stato e dei Comuni.

L’associazionismo a scopo ricreativo, di tipo interculturale, spesso trova spazio nelle strutture educative e sociali della Chiesa cattolica e delle altre religioni (oratorio cattolico!) e questo è un dato molto positivo, ma sarebbero auspicabili scuole pubbliche aperte anche di pomeriggio.

La famiglia immigrata è diventata ormai sede e luogo di mediazione interculturale e strutturalmente “cellula fondamentale” e staminale di stabilità psicologica, sociale e lavorativa, e fattore dinamico di integrazione sociale e valoriale a partire dalla priorità vissuta degli stessi interessi vitali. La famiglia immigrata andrebbe quindi considerata non solo rifugio ma cellula attiva della società ospitante come la famiglia autoctona. Le famiglie immigrate investono sui propri figli assicurando loro possibilità di studio e di accesso ad attività lavorative considerate più elevate nei parametri e nella scala di prestigio della cultura antropologica della nostra società. Il familismo degli immigrati è simile a quello della cultura siciliana ma svolge un’utile leva di integrazione se supera le sue ambiguità mono-culturali. Anche nel Sud, dove continua ad arrivare l’immigrazione “povera”, bisogna ormai porsi nell’Agenda culturale e politica del Paese il problema di attivare dinamiche di inculturazione e di reciprocità di accoglienza delle seconde generazioni, dopo la prima ondata di figli di immigrati, ricordandoci che «oggi la gente ha fame d’amore, ha fame di comprendere l’amore più grande e di sperimentare personalmente l’amore più puro, che è l’unica risposta alla solitudine e all’eterna miseria». Per questo «Dio ci ha creato perché realizzassimo piccole cose con grande amore» (Madre Teresa di Calcutta, Shalom – un pensiero per ogni giorno, p. 98).

Anche la prossima 46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani di Reggio Calabria può essere un’utile verifica di merito e di metodo su questa frontiera di testimonianza.

LUCIANO  NICASTRO

filosofo e sociologo

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