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PRIMARIE PARLAMENTARI PARTITO DEMOCRATICO NÉ VERE NÉ “APERTE”
26 Dic 2012 12:33
Quando sembrava che, a causa della fretta imposta dagli eventi, potessero saltare ho lanciato l’allarme.
Quando, il 10 dicembre, sono state annunciate ho preso atto, apprezzando la scelta, ma, già sulla base dei primi criteri accennati, ho richiamato l’attenzione sulle modalità e sulle procedure che sarebbero state decise.
Lunedì 17 dicembre il Pd ha dettato le sue regole, mentre Sel ha dato l’impressione di volersi accodare senza alcuna autonomia.
Nei giorni scorsi, proprio per il dibattito che avevo suscitato prima, sono stato più volte sollecitato ad esprimere il mio pensiero. Lo faccio volentieri.
Premetto – e non è inutile in un Paese che ha dato spesso prova di avere smarrito la memoria – che la normativa elettorale vigente, la l. n. 275 del 21 dicembre 2005, nota come “porcellum”, fu imposta – con il più grave vulnus mai inferto alle norme, non scritte, ma per questo ancora più importanti, della nostra democrazia repubblicana: leggi elettorali sempre con ampio consenso parlamentare – dall’allora maggioranza berlusconiana Fi-An-Lega-Udc, con il voto decisivo di ciascuno di questi quattro gruppi. Se anche uno solo dei partiti di Fini e Casini, da qualche tempo tra i più convinti detrattori (sic!) della legge da loro imposta al Paese e all’opposizione parlamentare di allora, non si fosse piegato, peraltro senza nemmeno fiatare, al diktat di Berlusconi, quella legge non sarebbe mai nata.
Perché sia ancora in vigore è cronaca delle ultime settimane. Coloro che allora la imposero hanno preteso fino a pochi giorni fa di dettare le condizioni per poterla cambiare, in peggio peraltro, con la sola eccezione dell’introduzione, parziale, delle preferenze. E il no a tali condizioni (sostanzialmente la garanzia che non avrebbe dovuto esserci maggioranza elettorale nel nuovo Parlamento) veniva – sempre da coloro che hanno inflitto il “porcellum” ai cittadini – bollato come volontà di tenerlo in vita. Ha provveduto Berlusconi a fare chiarezza, interrompendo questo balletto e spazzando via anche la flebile eventualità che una nuova legge potesse vedere la luce. A lui serve il “porcellum” e non ha bisogno di farne mistero.
Se questi sono i fatti, solo con l’indizione di primarie parlamentari, vere ed aperte, il fronte progressista avrebbe potuto dimostrare non solo di non avere responsabilità della vigenza di questa legge offensiva della democrazia di un Paese (dopo averne però fruito, senza battere ciglio, nella compilazione delle liste nel 2006 e 2008), ma di volere effettivamente scegliere un metodo di partecipazione democratica nell’elezione dei parlamentari, restituendo ai cittadini il diritto loro sottratto.
Ecco perché, annunciata la scelta, dissi che la questione decisiva era racchiusa nella risposta a queste due domande.
Chi potrà votare? Chi e attraverso quale procedimento decisionale potrà essere candidato alle primarie del 30 dicembre?
Purtroppo le due risposte fornite dalla direzione del Pd lunedì 17 dicembre sono le peggiori che potessero essere date. E la prima è stata fatta propria anche da Sel. Decisione, questa, incomprensibile se si considera che il 25 novembre Vendola è stato schiacciato dal fattore Renzi che ha falsato la partita riducendola ad un congresso Pd e al suo radicale confronto interno bipolare, allo scontro con Bersani, al dualismo vecchio-nuovo, consevatori-rottamatori. E Vendola è rimasto ai bordi del campo, mentre, se si fosse giocata la gara, propria e naturale come avrebbe dovuto essere, per il migliore candidato alla presidenza del consiglio, fuori dall’agone tutto interno al Pd, avrebbe avuto molti più consensi ed anche potuto vincere. In conseguenza di ciò, oggi primarie vere, aperte, autonome dal Pd consentirebbero a Sel di riproporre la propria identità politica e programmatica, anche in relazione alla scelta dal basso dei candidati al Parlamento, e di preparare un exploit nel voto del 24 febbraio che avrebbe il merito peraltro di correggere da sinistra, quindi in termini di giustizia sociale e di diritti dei più deboli, l’agenda-Monti che aleggia sui programmi di gran parte delle forze politiche in campo, compresi ampi settori del Pd. Senza dire poi che oggi, ogni momento vero di partecipazione democratica produce nuovo consenso a favore di chi la offre senza furbizie. Ecco in sintesi, invece e purtroppo, le due risposte che nel merito sono giunte, da parte del Pd che ha egemonizzato le primarie parlamentari, a quelle due domande.
In buona sostanza è stato deciso che: 1) potranno votare solo gli iscritti ai rispettivi partiti e coloro che lo hanno già fatto il 25 novembre e/o il 2 dicembre; 2) per il Pd potranno essere candidati solo coloro che saranno graditi agli apparati di partito e ai signori delle tessere che al loro interno orientano gli iscritti.
Nella storia italiana – tutta democratica e progressista – delle primarie, questo è un gravissimo passo indietro. Una chiusura improvvisa, un ripiegamento frettoloso e inspiegabile nelle retrovie delle anguste stanze delle sedi di partito, dal territorio libero e aperto della società civile finora percorso ed attraversato senza timori. Dalle primarie di ottobre 2005 per la scelta del candidato a presidente del consiglio, a quelle del 2007 e del 2009 per l’elezione del segretario Pd, e ancora a quelle recenti di novembre e dicembre 2012, mai era stata decisa una regola di chiusura.
Avevo già contestato la risposta alla prima delle due domande, vertente sull’elettorato attivo e praticamente annunciata già il 10 dicembre, con il seguente argomento.
Se il 25 novembre hanno potuto votare liberamente tutti coloro che hanno sottoscritto il “certificato di elettore del centrosinistra” e la carta d’intenti sulla quale è nata la coalizione (avente un candidato Presidente del Consiglio che abbiamo scelto attraverso le primarie del 25 novembre, un programma e liste di candidati al Parlamento che dovremo scegliere nelle apposite primarie parlamentari) perché il 30 dicembre non dovrebbe essere consentita la stessa cosa? Perché escludere altri potenziali elettori i quali per qualunque ragione potrebbero non avere potuto o voluto partecipare alla precedente consultazione, anche perché diversa era la domanda ? Una cosa infatti è concorrere alla scelta del candidato premier, un’altra a quella dei parlamentari del territorio, in ogni realtà locale.
La seconda domanda poi ha trovato, da parte del Pd, una risposta miope e di arroccamento sui propri apparati, che tradisce palesemente l’annuncio dato una settimana prima, il 10 dicembre: che sarebbero state primarie aperte. Aperte a chi?
Al netto della complessità delle procedure, in buona sostanza il Pd ha offerto la possibilità di candidarsi alle primarie parlamentari a coloro i quali: avrebbero raccolto il 5% (in provincia quasi 200), poi ridotto al 3% (ma quando gli appena tre giorni disponibili erano quasi trascorsi) delle firme degli iscritti al partito in almeno tre circoli, ovvero, nel nostro caso, tre comuni; avrebbero passato le forche caudine di una decisione, totalmente discrezionale, affidata alla direzione provinciale del partito con voto a maggioranza, sulla cancellazione delle candidature in eccesso. Poiché, altra stravaganza, il 30 dicembre la ristretta platea di elettori ammessi al voto potrà esprimersi su un numero di candidature al massimo pari al doppio delle posizioni eleggibili, in provincia di Ragusa otto, quattro per genere, alcuni candidati, anzi “precandidati” che avessero raccolto le firme avrebbero potuto essere esclusi, senza criteri e con decisione discrezionale, dal vaglio democratico delle primarie perché è dato alla direzione, con un voto, decidere quali nomi tagliare e quali tenere in lista. L’ammissione di un numero più ampio di candidati, come in alcuni casi è stato, avrebbe richiesto la maggioranza dei due terzi. Insomma tutte decisioni affidate agli organi interni di partito. Per carità, tutto legittimo, ma non si dica che sono “primarie aperte”!
Quale avrebbe potuto essere, se fosse riuscito nell’impresa di raccogliere le firme dentro il partito cui non appartiene, la sorte di un candidato espressione della società civile, o comunque potenzialmente forte di consenso popolare ma non gradito ai capi delle correnti di partito, è facile intuire. E infatti basta guardare le liste. Su circa duemila candidati del Pd in Italia, c’è qualche “indipendente”? Io non ne vedo nessuno.
Da aggiungere che una parte rilevante di parlamentari eletti sarà sottratta dalla sfera di queste “primarie di partito” e consegnata – così come consente, ma certo non impone, il porcellum – alle decisioni dall’alto, sia per la quota riservata al segretario che per i filtri, le compatibilità e gli aggiustamenti che saranno compiuti in sede nazionale e regionale. Alla fine, nel Pd, con ogni probabilità non più del 60% degli eletti finali sarà uscito dalle primarie, mentre nel caso di Sel la situazione è anche peggiore in quanto, essendo più esiguo il suo potenziale elettorale, la quota riservata potrebbe occupare oltre la metà dei posti in lista con concrete possibilità di elezione.
Sia ben chiaro. Scelte legittime. Del resto, i partiti della coalizione dell’Unione del 2006 (Ds, Margherita, ecc…) e il Pd di Veltroni del 2008 si guardarono bene anche solo dal tentare quella che, fin dall’avvento del “porcellum”, doveva apparire a tutte le forze politiche che ne erano vittima, un’operazione naturale di selezione democratica dei candidati da collocare nelle liste bloccate. Ed ho voluto in premessa ricordare l’origine del “porcellum” proprio perché sulle responsabilità non si può generalizzare.
Ma pensiamo adesso a cosa abbiano significato e prodotto le primarie dal 2005 (proprio quando il centrodestra concepiva e pianificava la sua “legge-porcata”) al 25 novembre, la mobilitazione di società civile, dei milioni di cittadini non iscritti a partiti, perché anche i partiti meno compromessi hanno dato le prove che hanno dato: per esempio tradendo la volontà referendaria sul finanziamento pubblico, votando anche dall’opposizione leggi in contrasto con essa, incassando in modo moralmente riprovevole somme stratosferiche sottratte a finalità autenticamente pubbliche, e tacendo. Tutti comportamenti che, anche se non comparabili a quelli di certi personaggi del Pdl, della Lega o dell’Udc, danno l’idea di cosa, ancora oggi, siano o siano state anche le espressioni più pulite dei partiti.
Pensiamo, dicevo, alla mobilitazione di tanti cittadini non iscritti a partiti (e come criticarne la scelta?) i quali nelle varie primarie nate, fin dalle primissime in Puglia nel 2005, nel campo progressista hanno risposto, partecipando, schierandosi e mettendo linfa preziosa nel circuito della buona politica. Fino al 25 novembre è stato così. Tutto questo è finito, archiviato. Se Bersani vuole esaltare queste primarie – peraltro le prime per la scelta dei parlamentari, tali quindi che, in presenza del porcellum, avrebbero dovuto essere le più aperte di sempre – come una grande, nuova occasione di apertura e di democrazia, lo faccia pure, ma è bene chiamare le cose con i loro nomi: si tratta di democrazia interna al suo partito, di cessione di una parte del potere di “nomina” dei parlamentari dalla nomenclatura centrale alle nomenclature periferiche, e non certo di apertura all’esterno o alla società civile.
Se poi Bersani rifiuta di rispondere alle domande e alle critiche sui criteri di queste primarie, indignandosi e liquidando la questione con l’invito a vedere cosa succeda in casa d’altri, potrà avere qualche ragione perché non c’è dubbio che vi sia un abisso rispetto a tutti gli altri partiti di centro e di centrodestra, ma così facendo sbaglia clamorosamente. Ci dice infatti che si considera affine agli altri, vuole essere giudicato nel confronto con gli altri e sul loro stesso terreno, e ciò spiega il grave arretramento che ha imposto all’esperienza delle primarie come finora le abbiamo conosciute. Poteva anche non farle le primarie parlamentari, come Fassino per i Ds nel 2006 e Veltroni per il Pd nel 2008, dopo averle però annunciate, e sarebbe stato giudicato per questo.
Le ha fatte, merito alla scelta, ma è giusto discutere in verità e onestà di come le abbia volute, rispetto a come avrebbe potuto e, a mio avviso, dovuto, in continuità con il valore di grande partecipazione finora sempre espresso dal popolo progressista.
Se Bersani si accontenta di essere messo a confronto con Casini, Berlusconi, Maroni e gli altri, per risultare appena migliore di loro, è bene sapere che è questo il suo orizzonte. Ben altro è stato quello delle primarie in tutta la loro storia, dal 2005 al mese scorso.
Rimane quindi il punto chiave che avevo già sollevato. Perché, in un sistema parlamentare nel quale il Parlamento è l’espressione e il custode della sovranità popolare, proprio l’elezione dei parlamentari – nel momento delle primarie che è l’unico in cui i cittadini possano esprimersi nella scelta degli eletti – deve sottostare a limitazioni e chiusure (trancianti quelle per i candidati, vere e proprie forche caudine insediate negli apparati di partito) che in nessun’altra forma di consultazione primaria è stata mai prevista?
In questo momento storico offrire spazi e momenti di autentica partecipazione significherebbe acquisire nuovo consenso. Il Pd ha avuto paura (e Sel purtroppo, almeno per quanto riguarda gli aventi diritti al voto, l’ha seguito; altro discorso invece per i criteri sulle candidature) consegnando la rappresentanza della società civile ad altri movimenti e realtà di cittadinanza attiva che crescono sempre di più. Un errore grave. Una grande occasione sprecata.
Avevo detto, alla vigilia delle decisioni sulle regole di queste primarie, che eravamo dinanzi ad un bivio con due possibilità: andare avanti lungo il cammino del cambiamento, della partecipazione democratica, della trasparenza delle istituzioni o, dopo il tratto percorso, fare inversione di marcia e tornare indietro. Il Pd ha scelto questa seconda strada.
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