PIOVE SUI LAVORATORI PIANGE L’ETICA DEL LAVORO di Luciano Nicastro

 

Nel mezzo della crisi – da finanziaria divenuta anche produttiva e occupazionale -, scoppia, in Italia, non la mobilitazione degli intenti convergenti, né una doverosa politica di concertazione per “uscire dalla crisi insieme”, ma la sperimentazione, muscolare e conflittuale, di un nuovo modello di relazioni industriali che colpisce da vicino il lavoro italiano nelle diverse zone del Paese, da Termini

Imerese a Pomigliano d’Arco, a Mirafiori, se dovessimo guardare solo il caso FIAT. Delegittimare le posizioni radicali e ribelli del sindacato, isolare le frange dei facinorosi con la minaccia della delocalizzazione delle aziende del Gruppo, tagliando e rimodulando piani e contratti, incorporando e scorporando, è l’ultima stoccata dell’AD di FIAT,  Sergio Marchionne, che si accinge a produrre il monovolume promesso a Mirafiori e alla città di Torino, in Serbia, dove, a costo quasi zero, grazie ai finanziamenti europei e agli incentivi dello Stato serbo, potrebbe, con maggiore vantaggio economico, ma non morale, incrementare gli utili e il profitto della multinazionale mediante “l’operazione scorporo” dei settori tradizionali e strategici della industria torinese.

Il Governo Berlusconi, di fronte a questa pericolosa novità sul piano sociale e sindacale, economico e politico, non riesce né a definire una politica del lavoro e della ripresa produttiva, né a svolgere un’adeguata mediazione fra le parti in conflitto, né a ripristinare la positiva politica della concertazione del precedente Governo Ciampi degli anni 90, né a trovare i soldi pubblici necessari per investimenti di sostegno alla politica di sviluppo industriale e del lavoro dell’Italia rispetto alla piccola Serbia. Marchionne, da quando è diventato AD della Fiat, ha suscitato in Italia sentimenti alternativi e opposti, di illusioni e speranze di rinascita della “Fabbrica Italia”, e delusioni e preoccupazioni per le brusche e pesanti virate di inversioni produttive e sindacali, espresse sempre con forte cipiglio decisionale nelle relazioni industriali, esprimendo una sfiducia nei sindacati italiani, e progettando addirittura l’ipotesi, studiata a tavolino, di azzeramento o svuotamento dei contratti nazionali e di inaugurazione di un nuovo corso “giallo” delle relazioni sindacali, a tutto suo vantaggio nelle situazioni di Mirafiori, Termini Imerese, Pomigliano d’Arco, etc.

Ha messo in difficoltà lo stesso Ministro del Lavoro italiano, Maurizio Sacconi, che è rimasto a fare il predicatore disarmato del buon senso ormai perduto. Marchionne è diventato, ormai, un caso da manuale nella sua guerra lampo contro il sindacato, nello specifico la CGIL, per il suo misterioso e unilaterale disegno di ristrutturazione della multinazionale FIAT, con scorpori, licenze e aiuti dagli USA e dalla UE, abbandonando il tradizionale ancoraggio italiano, perché la politica liberista a parole del Governo Italiano senza soldi e volontà di fare…si è rivelata velleitaria e piratesca. Chi si illudeva di poter contare sulla riconoscenza della italianità della FIAT per far uscire

l’Italia dalla crisi produttiva e di lavoro si è dovuto ricredere. Di fronte alla monetizzazione galoppante di tutto, nella palude sempre più acquitrinosa della corruzione pubblica, la FIAT si presenta con il volto trasparente del decisionismo economico e manageriale, contro l’assistenzialismo ascaristico di “Roma Ladrona” dei tanti “Boiardi di Stato”. Ad un Governo che si attribuisce il merito del “fare”, FIAT ha fatto vedere il lato pulito della legge ferrea dell’economia capitalistica secondo cui “gli affari sono affari” e “il tempo è denaro” se si sa utilizzare bene per produrre e risanare. Dopo aver toccato il fondo, possiamo trovare una via di uscita e di rinascita in questo Paese che non può rinunciare a governare il suo sviluppo, stando a guardare la “guerra per

bande” che si è scatenata ovunque, dal centro alla periferia? In questa situazione, a rischio vi sono le nuove generazioni: manca in esse e nel “Sistema Paese”, in modo concreto e performante, l’etica del lavoro e della responsabilità nazionale e solidale nei confronti del “bene comune”, da parte sia del sistema economico che di quello politico. Arranca sia il protezionismo che il liberismo economico all’italiana; è in affanno la destra (di Governo) e la sinistra (all’opposizione); sembra – sul piano culturale con le leggi liberticide del bavaglio e del monopolio dell’informazione – che la crisi sia diventata endemica e senza prospettive.

L’annunciata fine del lavoro non ha trovato, né sul piano teorico né su quello operativo, un ripensamento italiano “originale e puntuale”, né uno sforzo collettivo sul fronte sindacale, né su quello partitico e politico complessivo. Lodevole ed esemplare il magistero civile del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ma solo efficace in termini di moral suasion. In verità, non ci sono presidi teorici e culturali di futuro e di prospettiva se si assume il globalismo, denunciato da Ulrich Beck, come un fatto non solo ineludibile ma strutturalmente inevitabile. Anche i Sindacati si trovano a un bivio: difesa operaista o ubbidienza neocapitalista.

Lo stesso Marchionne ragiona, pensa e agisce in nome di un “AD” di una multinazionale. Secondo il Ministro Sacconi “il grande scambio del progetto Fabbrica Italia prevedeva investimenti in cambio di maggiore produttività del lavoro… e di relazioni industriali più cooperative”. Se fosse solo così, il Sindacato CGIL, per bocca di Susanna Camusso, sarebbe più che disponibile a dialogare, trattare e collaborare, ma, in realtà, si vogliono mettere i discussione i diritti fondamentali e quelli “storici” dei contratti aggirandoli o azzerandoli. E’ una pericolosa “partita a poker”: bypassare sui diritti in cambio del lavoro più garantito in tempo di crisi, come a Pomigliano. Marchionne, con la mossa della delocalizzazione in Serbia, della produzione promessa a Mirafiori, ha alzato il livello dello scontro e reso impossibile un accordo senza una resa

umiliante, a meno di una robusta e autorevole controffensiva razionale e di merito del Ministro del Lavoro e dell’intero Governo Nazionale. Sul fronte morale e religioso, i cattolici italiani non sono assenti e silenti, piuttosto spingono per una applicazione della dottrina sociale cristiana in termini di operatività e di testimonianza anche nelle povertà delle diocesi dove aumentano, specie nel Sud, i livelli di disoccupazione e di welfare minimo. Secondo Papa Benedetto XVI “la persona umana è il primo capitale da salvare” e ciò non è possibile senza la redistribuzione della ricchezza ed il riequilibrio delle diseguaglianze del Paese.

Nella “Caritas in Veritate” al tema del lavoro vengono dedicati i paragrafi 62-66. In essi si parla del valore e della dignità del lavoro e della responsabilità sociale dell’impresa e per la prima volta si mette sotto accusa il flessibilismo ideologico come causa della precarizzazione della vita e del lavoro e come problema centrale della moderna questione giovanile, e si invita il pensiero sociale ad elaborare nuove vie per l’esercizio del diritto universale al lavoro, e a definire le condizioni minime di sviluppo di una mirata economia sociale e civile del lavoro, della produzione e del consumo responsabile e solidale.

La nientificazione del senso antropologico del valore del lavoro è stata messo in luce da Francesco Totaro criticando il lavorismo e tracciando recentemente un nuovo percorso di etica del lavoro (cfr. Non di solo lavoro…, Vita e Pensiero Milano 1999) e il recente ampio dibattito sull’etica del lavoro (cfr. AA.VV., Il lavoro come questione di senso, – a cura di Francesco Totaro, Ediz. Eum, Macerata 2009 ). In diversi libri e articoli ho avuto anch’io modo di affrontare i bisogni nuovi e inediti del problema culturale, sindacale e politico del lavoro e la necessità di un nuovo diritto del lavoro secondo la teorizzazione del giuspersonalismo di Giuseppe Limone (cfr. L. Nicastro La vera nuova frontiera: scuola, lavoro, welfare, Erripa, Palermo 2006, Le leve dello sviluppo,Erripa Palermo 2008 etc.).

Come sostiene F. Totaro si tratta di “legare il lavoro all’ “essere persona”, mediante “una più affinata sensibilità politica nella sua promozione” e ospitando ”nel lavoro tutte le capacità dell’umano anche se il lavoro non è tutto” se non altro perché “la felicità dell’intera persona renderebbe più felice il lavoro”(ibidem p.327). E’ soprattutto l’enciclica sociale di Papa Benedetto che oggi costituisce un vero cambio di passo spirituale per un nuovo inizio di civiltà nel centro e nel cuore della prima grande crisi del nuovo mondo globale nella quale non possono essere distratti e silenti i cristiani e i cattolici sul tema della globalizzazione e della solidarietà di cui parlava l’indimenticabile Papa Karol Wojtyla. Il liberismo italiano in atto non è solidale né “familiare” nei suoi quozienti culturali e politici perché si muove in tutt’altra direzione.

Esso ritiene di dover rendere conto solo alla economia “privata” e non alla morale oggettiva, né alla funzione pubblica e solidale di riproduzione della speranza civile, antropologica e occupazionale, della politica nazionale del bene comune. La sua italianità è più “compassionevole” di facciata e “figurativa” in atto solo a parole e a promesse preelettorali. In questi giorni se ne discute: FIAT è riuscita a difendersi e a sopravvivere come multinazionale solo perché, intelligentemente e abilmente, è riuscita ad agganciarsi alla Chrysler in difficoltà, e il Presidente Obama, con il “rifinanziamento”, salvando la Chrysler ha salvato indirettamente la stessa FIAT.

Così la prospettiva potrebbe essere: predisporre la vendita del settore automobile scorporato dalla FIAT, preparare la fusione con la Chrysler e “restare a Torino senza più l’auto”. La vicenda di Pomigliano, in questo senso, è “un apripista”, e non solo una provocazione tattica di Marchionne, e morde da vicino e con denti aguzzi l’intero tessuto industriale italiano, fatto in prevalenza di una miriade di piccole e medie aziende. Indebolire il sindacato, in questo contesto, serve a incentivare, con la minaccia della delocalizzazione del lavoro, una potente e inedita forza dissuasiva nei lavoratori. Si è scatenato, così, un piano di attacco alle conquiste sindacali e sociali dei lavoratori, maturate con l’autunno caldo del Sessanta del secolo scorso, e rimettendo in discussione il quadro dei diritti di prima generazione e di quelli successivi. Bisogna mettere a questo punto un vincolo normativo, per legge condivisa, di durata e di stabilità produttiva degli impianti produttivi e della forza lavoro.

Pensare, quindi, ad un nuovo e più adeguato diritto del lavoro nel sistema delle moderne relazioni industriali continentali e globali, con l’assunzione di paletti di difesa legittima della produzione, del lavoro, e pur nella libertà del commercio, a vantaggio dei lavoratori e della sana imprenditoria delle piccole e medie aziende e a sostegno dello sviluppo endogeno e produttivo e non solo di cattive operazioni di conquista finanziaria, come da tempo sostiene il giuslavorista Mario Napoli.

La politica liberista è essenziale per la libertà e la flessibilità dei lavoratori e la produzione di soddisfacente bene comune per tutti, imprenditori onesti e lavoratori seri. Il teorema Marchionne secondo cui “chi non è con me è contro di me”, compromette ogni spirito di concertazione benefica e positiva di lungo respiro e rende tutto precario perché inquina e prevarica la forza di contrattazione reale. Se egli non voleva subire il potere di veto della FIOM, o la degenerazione corporativa e parassitaria delle scatole sindacali, che spesso appesantiscono le relazioni industriali, poteva, alla scadenza normale, sviluppare una battaglia confindustriale per un livello più consono e concertato di armonia funzionale del sistema per modernizzarlo e renderlo più efficace contro le crisi ricorrenti e la crisi generale in atto, senza spegnere i valori sorgivi dell’etica del lavoro e della produzione responsabile, e non solo più remunerativa nell’immediato, e inviare messaggi e proposte di rinascita collettiva alla socializzazione lavorativa delle giovani generazioni, dei disoccupati e dei precari e di quanti ancora credono ancora nel vantaggio generale di uno sviluppo condiviso, concertato e costruito con il sacrificio di tutti.

Jane Jacobs ha parlato a riguardo di “vite in frammenti” che annunciano “un’età buia”. La delocalizzazione delle imprese e del lavoro, bocciata anche dal Vaticano, è una mina vagante sulle relazioni industriali e su una prassi sindacale e politica che voglia essere razionale, equilibrata e saggia. Si possono seppellire gli eroici furori di parte dei tanti poteri di veto delle cento tribù parassitarie, e la logica ricattatoria del facile ricorso alla forza muscolare, purché sia chiaro che le piccole furbizie strumentali e tattiche o le scorribande disinvolte non hanno mai aperto sentieri duraturi di ricostruzione, come abbiamo sperimentato nel secondo dopoguerra.

Il diritto ontologico al lavoro, di cui parlava Giorgio La Pira, non è solo una ventata profetica ma una bandiera utopica e direttiva tutta da sperimentare nel breve periodo e nel mezzo di una crisi sistemica e di passo secondo le intuizioni di Adriano Olivetti, di Emmanuele Mounier, di Don Zeno Saltini e di Livio Labor, convinto assertore di una nuova unità sindacale nell’autunno caldo. Non c’è chi non veda la grande mutazione in atto del valore del lavoro, dell’economia reale e della svolta oggettiva e paradigmatica della crisi del 2009 che postula nuovi orizzonti di senso e di comportamenti responsabili. Si è aperta una partita della ragione e del cuore, della responsabilità e della ragionevole equità. Ci sarà una più mirata cultura del lavoro ed una politica alta e lungimirante, una nuova concertazione?

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