PIETRO BEMBO

Pietro Bembo nacque a Venezia il 20 maggio 1470, e appartenne a una delle famiglie più importanti della città, figlio di Elena Morosini e Bernardo che era un esponente di primo piano nella vita politica e diplomatica della Repubblica di Venezia e uomo di profonda cultura umanistica. Pietro, ebbe anche lui questo tipo di educazione e si rese ben presto conto della sua vocazione per gli studi letterari e, negli anni della giovinezza, ci si dedicò con molto impegno.

Tra il 1492 e il 1494, soggiornò a Messina per studiare il greco alla scuola dell’umanista bizantino Costantino Lascaris.

Tornato a Venezia collaborò con il grande editore Aldo Manuzio (1450-1515), che stampò la sua prima opera, il De Aetna, una breve prosa latina in cui l’autore racconta la sua ascesa sull’Etna.

Per Manuzio, Bembo curò poi, due fondamentali edizioni delle poesie del Petrarca e della Commedia dantesca, rinnovate nel testo e nella veste editoriale.

Soggiornò poi col padre alla corte d’Este, a Ferrara, e lì, alla scuola di Niccolò Leoniceno, approfondì gli studi di filosofia che già aveva iniziato a Padova qualche anno prima.

Si rese conto di non essere portato per la carriera diplomatica cui lo stava avviando il padre. Tornato a Venezia  intrecciò una relazione amorosa con la nobildonna Maria Savorgnan. Questo amore lasciò  traccia nell’autore e anche il successivo, con Lucrezia Borgia quando vi tornò a soggiornare, (Lucrezia era infatti la duchessa di Ferrara avendo sposato in terze nozze il duca Alfonso d’Este).

Questa prima fase della vita  di Pietro Bembo trovò un’espressione letteraria, oltre che in rime volgari e poesie latine, nella prima impegnativa opera  in prosa volgare, gli Asolani, pubblicata a Venezia nel 1505 e dedicata a Lucrezia Borgia.

Si tratta di un dialogo comprendente anche poesie che si finge avvenuto ad Asolo nel giardino di Caterina Cornaro, regina di Cipro, a cui partecipano  tre giovani e tre donne per tre giornate. Il dialogo e le poesie vertono esclusivamente sull’amore, di cui vengono esposte esperienze diverse  e opposte.

Nel primo libro Perottino, amante infelice, parla dell’amore in modo negativo. Nel secondo, Gismondo, amante felice, esalta il sentimento amoroso. Nell’ultimo, Lavinello, il terzo giovane e poi un nuovo personaggio, un eremita, che interviene improvvisamente  nella discussione richiamano  a un più alto e spirituale  concetto dell’amore, ispirandosi alla filosofia neoplatonica e alla dottrina cristiana.

La novità dell’opera di Bembo sta nell’aver trasposto la tematica amorosa in prosa volgare, sia nell’avervi inframmezzato delle rime  modellate di un petrarchismo  di lingua  e stile molto più rigoroso e fedele di quello della poesia contemporanea. Anche la prosa, per la sua aderenza al linguaggio di Giovanni Boccaccio, rappresentava un’operazione letteraria  originale, purtroppo spesso (all’epoca) appesantita da un eccesso di affettazione.

La svolta fondamentale della vita di Bembo avvenne nel 1506, quando decise di lasciare definitivamente Venezia e tutte le incombenze e i doveri di patrizio che lo avrebbero costretto ad impegni che non gradiva.

Sì stabilì dai Montefeltro di Urbino e, in seguito, passò allo stato ecclesiastico. E non fu certo per  vocazione religiosa, ma solo per poter esprimere più liberamente la sua vera vocazione, quella letteraria, fuori dalla sua città, garantendosi l’indipendenza economica attraverso le entrate dei benefici ecclesiastici che via via sarebbe riuscito ad ottenere.

A Urbino rimase sei anni e  compose parecchie rime, tra cui, è da ricordare  una canzone funebre per il fratello Carlo, Alma cortese, che dal mondo errante, e soprattutto Stanze, cinquanta ottave recitate a corte la sera di carnevale del 1507.

Si trasferì a Roma nel 1512 e, l’anno dopo, Bembo fu eletto da papa Leone X segretario ai brevi (le lettere pontificie ufficiali, da redigere in latino). Questo era un alto riconoscimento della bravura umanistica e insieme anche una sua vittoria nello stile ciceroniano da lui propugnato. Leone X gli affidò anche una importante missione diplomatica a Venezia che però non ebbe buon esito. Seguì un periodo deludente, per tutta una serie di eventi tra cui la morte del padre Bernardo nel 1519. Abbandonò Roma, tornò nella città natale e poi si stabilì a Padova nel 1522. Qui elaborò e portò a compimento il suo capolavoro, le Prose della volgar lingua, pubblicate ne 1525 e sistemò il resto  della sua produzione letteraria ridando alle stampe gli Asolani riveduto  nel 1530. Era ormai diventato un punto di riferimento ed un maestro indiscusso  dei letterati italiani.

Benché avesse pronunziato i voti entrando nell’ordine gerosolimitano nel 1522, non aveva mai interrotto la sua convivenza con Faustina Morosina della Torre che gli diede tre figli e che rimpianse accoratamente in parecchie rime, dopo la morte di lei, nel 1535.

Scrisse in latino la Historia Veneta, che poi tradusse anche in volgare. Quasi settantenne, ebbe la soddisfazione, nel 1539 di essere nominato cardinale da Paolo III, il papa Farnese, ma la carica  non gli impedì di dedicarsi fino alla fine alla letteratura. Morì a Roma il 18 gennaio 1547.

 

E ora una bellissima poesia d’amore di Pietro Bembo.

 

 

Crin d’oro crespo

e d’ambra tersa

e pura

 

 

Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura,

ch’a l’aura su la neve ondeggia e vole,

occhi soavi e più chiari che ‘l sole,

da far giorno seren la notte oscura,

 

riso, ch’ acqueta ogni aspra pena e dura,

rubini e perle, ond’escono parole

sì dolci, ch’altro ben l’alma non vole,

man d’avorio, che i cor distringe e fura,

 

cantar, che sembra d’armonia divina,

senno maturo a la più verde etade,

leggiadra non veduta unqua fra noi,

 

giunta a somma beltà somma onestade,

fur l’esca del mio foco, e sono in voi

grazie, ch’a poche il ciel destina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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