Messa per le vittime del covid, accesi 223 lumini in loro ricordo. In Cattedrale


A lato dell’altare, sotto Gesù Crocifisso, 223 lumini bianchi hanno ricordato le vittime che la pandemia da Covid 19 piante negli otto comuni della Diocesi di Ragusa. Il vescovo, monsignor Giuseppe La Placa, li ha ricordati nel corso di una celebrazione di suffragio che si è tenuta nella cattedrale di San Giovanni Battista. Un pensiero particolare è andato ai sacerdoti don Romolo Taddei e don Raffaele Campailla dei quali, proprio in questi giorni, ricorre il primo anniversario della scomparsa. Tutti i comuni della Diocesi sono stati colpiti dal dolore e dal lutto. Più di tutti Vittoria che ha contato 99 vittime, seguita da Ragusa (56), Comiso (35), Chiaramonte Gulfi (16), Santa Croce Camerina (7), Acate (6), Giarratana e Monterosso Almo (2).

Per tutti loro e i loro cari, il vescovo e l’intera Chiesa di Ragusa hanno innalzato una preghiera, nella certezza che ora si trovino al cospetto della Misericordia di Dio. Nel corso della concelebrazione si è pregato anche per i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari, i ricercatori, i governatori, per quanti si trovano a vivere momenti di solitudine e dolore.

Il tempo della pandemia, ha ricordato il vescovo, ha inciso profondamente nelle nostre vite. «Tanti – ha evidenziato – sono stati segnati dal dolore perché hanno perso una persona cara, le relazioni familiari e sociali sono state messe a dura prova, la crisi economica ha colpito duramente le famiglie». Nel corso dell’omelia, monsignor La Placa si è soffermato sulla solitudine che ha accompagnato gli ultimi istanti delle vittime, definendola una «condanna impietosa, forse anche ingiusta». «Molti – ha aggiunto – sono andati via nel più assordante silenzio, come inghiottiti in una specie di buco nero esistenziale che li ha sottratti alla scena di questo mondo e all’affetto dei propri cari, morti e sepolti nella più assoluta solitudine». E su questo concetto è più volte tornato.

«Quello che nei mesi scorsi è risultato indicibilmente pesante è stata la pena di morire da soli, senza la presenza dei propri cari, dei vicini di casa, degli amici di una vita. E se l’encomiabile umanità di medici e infermieri ha alleviato la loro solitudine, certamente non ha potuto sostituire il volto amico, la mano dolce, la presenza confortante di un parente o di un familiare cui poter rivolgere uno sguardo o semplicemente un ultimo desiderio nel momento decisivo della nostra vita terrena». Un momento nel quale, ha sottolineato il vescovo, spesso si riscatta e si dà valore con il perdono e l’amore a una vita intera. Restano le certezze della fede e della Resurrezione, così come – l’ultima consolante immagine regalata dal vescovo nella sua omelia – la certezza della «presenza di Maria nei reparti di terapia intensiva dei nostri ospedali accanto ai nostri congiunti per offrire la sua compagnia prima dell’abbraccio misericordioso di Dio».


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