LA GATTA CENERENTOLA

Proseguo con la fiaba del letterato partenopeo Giambattista Basile (con riferimenti a un racconto cinese, molto più antico, del IX secolo). L’autore si serve della struttura fiabesca nei racconti, nei quali si alternano saggezza e stupore, forza comica e gusto macabro, linguaggio aulico e proverbio dialettale. E ora la seconda e ultima parte del racconto, tradotto dal napoletano da Michele Rak.

Ed ecco che uscì fuori dalla spelonca una bella ragazza – sembrava un gonfalone – che gli disse che ringraziava la figlia  del buon ricordo e che se la godesse per amor suo: così dicendo gli diede un dattero, una zappa, un secchiello d’oro e una tovaglia di seta, dicendo che l’uno era per seminare e le altre cose per coltivare la pianta. Il principe, meravigliato di questi doni si congedò dalla fata alla volta del suo paese e, dato a tutte le figliastre quello che avevano chiesto, diede finalmente alla figlia il dono che le aveva mandato la fata.

E lei, con un’allegria che non la faceva stare nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso, lo zappettava, lo annaffiava, e con la tovaglia di seta lo sciugava mattina e sera, tanto che in quattro giorni, cresciuto nella misura di una femmina, ne uscì fuori una fata dicendole: “Cosa desideri?” Zezolla le rispose che desiderava uscire qualche volta da casa, ma non voleva che le sorelle lo sapessero. La fata replicò: “Ogni volta che ti fa piacere, vieni al vaso e dì:

Dattero mio dorato

con la zappetta d’oro t’ho zappato,

con il secchiello d’oro t’ho bagnato,

con la tovaglia di seta d’ho asciugato,

spoglia te e vesti me!

E quando vorrai spogliarti cambia l’ultimo verso dicendo: Spoglia me e vesti te”.

Ora, venuto il giorno della festa uscite le figlie della maestra tutte spampanate agghindate imbellettate, tutte nastrini campanellini gingillini, tutte fiori odori cose e rose, Zezolla corse subito al vaso e, dette le parole che le aveva insegnato la fata, fu sistemata come una regina e, sistemata su un  cavallo con dodici paggi lindi e pinti, andò dove andavano le sorelle, che fecero la bava alla bocca per la bellezza di questa splendente colomba.

Ma, come volle il caso, capitò in quello stesso luogo il re, che, vista l’incredibile bellezza di Zezolla, ne restò subito incantato e disse al servo più fedele di informarsi come potesse sapere di questa bellezza delle bellezze e chi fosse e dove abitasse.

Il servo subito subito e andò dietro: ma lei, accortasi dell’agguato, gettò una manciata di monete d’oro che si era fatta dare dal dattero per questo scopo. Quello, occhieggiati i quattrini, si dimenticò di seguire il cavallo per riempirsi le zampette di spiccioli e lei s’infilò di slancio in casa, dove, spogliata nel modo che le aveva insegnato la fata, arrivarono quelle bruttone delle sorelle, che, per farla cuocere, raccontarono tutte le cose belle che avevano visto.

Nel frattempo il servo tornò dal re e raccontò la faccenda delle monete e quello d’una gran rabbia, gli disse che per quattro soldini cacati aveva svenduto il suo piacere e che a qualsiasi prezzo avrebbe dovuto cercare, alla prossima festa, di sapere chi fosse la bella ragazza e dove stava nascosto quel bell’uccellino.

Arrivò l’altra festa e, uscite le sorelle tutte apparate ed eleganti, lasciarono la disprezzata Zezolla sul focolare; elei subito corse dal dattero e, dette le solite parole, ecco che ne uscì un mucchio di damigelle: una con lo specchio, una con la boccetta d’acqua di zucca, una con il ferro per i riccioli, una con il panno del belletto, una con le spille ,una con i vestiti, una con il diadema e le collane e, dopo averla fatta bella come un sole, la misero in una carrozza a sei cavalli, accompagnata da staffieri e da paggi in livrea e, arrivata nello stesso luogo dove era stata nell’altra festa, aggiunse stupefazione al cuore delle sorelle e fuoco al petto del re.

Ma quando se ne andò, il servo cominciò a seguirla, per non farsi raggiunger gettò un mucchietto di perle e di gioielli e mentre quell’uomo dabbene, s’era fermato per beccarseli, perché non era roba da perdere, lei ebbe il tempo di trascinarsi a casa e di spogliarsi come al solito. Il servo tornò mogio mogio dal re, e quello disse: “Per l’anima dei miei morti, se tu non me la trovi, ti faccio una battuta e ti do tanti calci in culo quanti peli hai nella barba”.

Arrivò l’altra festa e, uscite le sorelle, lei  tornò dal dattero e, ripetendo la canzone fatata, fu vestita superbamente e messa in una carrozza d’oro, con tanti servi intorno che sembrava una puttana sorpresa durante il passeggio e circondata dagli sbirri; e, andata a far gola alle sorelle, se ne partì e il servo del re si cucì a filo doppio con la carrozza.

Lei, vedendo che le stava sempre alle costole, disse: “Sferza, cocchiere”, ed ecco  che la carrozza si mise a correre di tutta furia  e la corsa fu così rapida che le cadde una scarpetta, ed era difficile vedere una cosuccia più carina. Il servo, che non era riuscito a raggiungere la carrozza che volava, raccolse la scarpetta da portò al re, raccontandogli quello che gli era capitato.

E lui, presa in mano la scarpetta, disse: “Se le fondamenta sono così carine, cosa mai sarà la casa? O bel candeliere, dove è stata la candela che mi consuma! O treppiede della bella caldaia dove bolle la mia vita! O bei sugheri attaccati alla lenza d’Amore co cui ha pescato quest’anima! Ecco, vi abbraccio e vi stringo e, se non posso arrivare alla pianta, adoro le radici e se non posso avere i capitelli bacio le basi! già siete stati cippi di un bianco piede e ora siete tagliole di un cuore nero; per mezzo vostro era alta un palmo e mezzo di più quella che tiranneggia la mia vita per mezzo vostro cresce altrettanto di dolcezza questa vita mentre vi guardo e vi posseggo”.

E dicendo questo, chiamalo scrivano, fa venire il trombettiere e tu tu tu fa pubblicare il bando che tutte le femmine del paese vengano a una festa pubblica e ad un banchetto che si è messo in testa di fare. E, venuto il giorno stabilito, oh bene mio che masticatorio e che cuccagna si fece! da dove arrivarono tante pastiere e casatielli, da dove gli stufati e le polpette? da dove i maccheroni e i ravioli? tanta roba che avrebbe potuto mangiarci un esercito intero.

Arrivarono tutte le femmine, e nobili e ignobili e ricche e miserabili e vecchie e bambine e belle e brutte e, dopo che ebbero ben pettinato, il re, fatto il prosit, provò la scarpetta ad una ad una a tutte le invitate, per vedere a chi andasse a capello e a pennello, in modo che potesse riconoscere dalla forma della scarpetta quella che andava cercando; ma, non trovando piede che andasse bene, stava a disperarsi.

Tuttavia, dopo aver fatto fare silenzio a tutti disse: “Tornate domani a fare un’altra volta penitenza con me; ma, se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina a casa, sia chiunque sia”. Disse il principe: “Ho una figlia, ma sta sempre a guardia del focolare, perché è disgraziata e da poco e non merita di sedere dove mangiate voi”. Disse il re: “Questa sia la prima della lista, perché così mi piace”. Così si congedarono e il giorno dopo tornarono tutti e, con le figlie di Cormosina venne Zezolla, e il re, appena la vide, ebbe come l’impressione che fosse quella che desiderava, tuttavia fece finta di nulla.

Ma, quando ebbero finito di battere i denti, arrivò la prova della scarpetta, che non s’era neppure accostata al piede di Zezolla che si lanciò da sola al piede di quell’ovetto dipinto d’Amore, come il ferro corre verso la calamita. Il re, visto questo, corse a prenderla nella morsa delle braccia e, fattala sedere sotto al baldacchino, le mise la corona in testa, comandando a tutte che le facessero inchini e riverenze, come alla loro regina. A questa vista, le sorelle, piene di rabbia, non avendo lo stomaco di sopportare questa crepa del loro cuore, se la filarono quatte quatte verso casa della mamma, ammettendo, loro malgrado, che

“è pazzo chi contrasta con le stelle”.

 

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