LA CRISI E LE BANCHE

Le banche, si sa, sono dei soggetti che con molta facilità risultano “antipatiche”, spesso oggetto di vituperio dell’opinione pubblica perché percepite come “soggetti forti” del mercato che nella relazione con gli operatori economici (siano essi privati consumatori o imprese produttrici) tengono sempre  il coltello dalla parte del manico. Questo è un dato abbastanza oggettivo, ma in tempi di crisi spesso diventano anche un facile capro espiatorio su cui dirottare il malcontento e le frustrazione che fatalmente montano nella società, ma essendo anche esse attrici del mercato in realtà ne vivono gli alti e i bassi alla stregua di tutti gli altri operatori e spesso in modo anche più intenso e diretto data la loro posizione centrale nel mercato finanziario.

Prima di proseguire dichiaro subito il conflitto di interessi che mi riguarda essendo “nel libro paga” di un’azienda bancaria, ma, per quanto ovvio, garantisco di non percepire neanche un centesimo in più del mio normale stipendio per quanto sto per scrivere.

Le banche italiane, per quanto vituperate, finora hanno attraversato questa lunga crisi nata finanziaria nel 2008 e trasformatasi in “crisi dei debiti sovrani” nel 2011 senza zavorrare l’economia del nostro Paese, ma anzi sostenendola.

Nella crisi finanziaria del 2008 le banche italiane furono tra le poche a non avere bisogno di finanziamenti pubblici visto che erano rimaste sostanzialmente indenni dai “titoli tossici” e ai margini delle “smanie finanziarie” che hanno di fatto ridotto sul lastrico le banche americane, britanniche e di parecchi paesi del nord Europa; in Italia solo 2 banche hanno attinto ai cosiddetti “Tremonti bond” che si badi bene non sono stati una donazione da parte dello Stato, ma solo un finanziamento ed anche ben remunerato se si considera che incassavano un interesse del 6-8% in anni in cui i tassi correnti erano di gran lunga più ridotti.

Ma adesso gli operatori cominciano a lamentare una certa difficoltà a trovare credito, cosa sta succedendo? Perchè si comincia a parlare di “credit crunch”? E cos’è?

Ebbene il credit crunch è traducibile come “stretta creditizia” e indica una minore disponibilità da parte del sistema bancario ad erogare credito, ma cosa sta alla base di questo atteggiamento?

Intanto per avere una corretta visione del problema è opportuno premettere che il sistema bancario europeo ha una regolamentazione nell’erogazione del credito sancita dagli accordi di Basilea che per garantire la stabilità del sistema bancario stesso ha posto dei vincoli patrimoniali molto stringenti per le banche che tengono conto tra l’altro della qualità del credito erogato.

In parole povere si deve mantenere un equilibrio tra il patrimonio della banca e il credito erogato in modo tale che l’eventuale inesigibilità del credito stesso non metta a repentaglio la stabilità della banca creando un accantonamento proporzionale alla “quantità” degli affidamenti concessi, ma percentuale anche alla “qualità” degli stessi.

E’ evidente che in periodi di crisi, in presenza di un deterioramento generalizzato del mercato finanziario (la Banca d’Italia ha segnalato che nell’ultimo anno, tra settembre 2010 e settembre 2011 le sofferenze bancarie sono aumentate del 39,9%) le banche devono accantonare maggiori quote di capitale proprio per mantenere il rapporto di stabilità previsto dagli accordi di Basilea e quindi avrà una minore disponibilità di concessione del credito, ma come se non bastasse anche maggiori costi finanziari.

Come se questo non bastasse circa un mese fa abbiamo ricevuto un regalo poco gradito dall’E.B.A. (European Banking Authority), l’autorità che vigila sulle banche europee.

Tra le competenze dell’EBA c’è anche quella di analizzare i bilanci delle banche per valutarne la solidità; ebbene siccome le banche italiane detengono in proprietà ben 160miliardi di euro di titoli di stato italiani, l’EBA ha provveduto con una solerzia degna di miglior causa a svalutare il controvalore di quei titoli attestando quindi l’insufficienza patrimoniale di molte banche italiane.

La decisione è opinabile in quanto le banche normalmente detengono i titoli di stato fino alla scadenza e quindi non subiscono la perdita che deriverebbe da una loro vendita quando sono quotati al ribasso; alla scadenza il loro valore è sempre quello nominale, ma essendo arrivata quella decisione nel momento di massima debolezza del Governo Italiano, di fatto nessuno ne ha operato un vero contrasto e quindi le banche si trovano a dover scegliere tra aumentare il capitale sociale in un momento in cui la ricerca di nuovi capitali è difficilissima o ridimensionare l’attività creditizia in un momento in cui il mercato ne ha massimo bisogno.

Il momento è sicuramente delicato, ma come credo di avere dimostrato spesso le banche si trovano davanti a scelte obbligate che prescindono dalla loro volontà di farsi carico di una responsabilità sociale.

Peraltro va sempre tenuto presente, quando si parla di sistema bancario italiano che parliamo di una realtà che per gran parte è controllata da entità pubbliche: la governance delle più grandi banche italiane infatti è controllata da fondazioni (è così per UNICREDIT, Intesa-SanPaolo, Montepaschi, CARIGE solo per citare le maggiori), che pur avendo l’esigenza pressante di produrre utili per gli azionisti non sono insensibili alle esigenze sociali del territorio in cui sono radicate.

L’unico elemento positivo è che vedo sorgere a livello europeo una nuova consapevolezza di essere tutti nella stessa barca, che ci si salva solo tutti insieme e quest’elemento può essere la chiave di volta su cui costruire un’inversione culturale che, pur con i necessari sacrifici, ci eviti di comportarci come i manzoniani capponi di Renzo che mentre stavano per finire in pentola pensavano a beccarsi tra loro.

 

 

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