IL DIAVOLO È (NON SOLO) NEI DETTAGLI

In materia di riforme istituzionali ed elettorali si dice che il diavolo sta nei dettagli. La materia elettorale è fatta da una molteplicità di meccanismi che, specie nei sistemi proporzionali, sono in grado di condizionare pesantemente il risultato di un’elezione: formula elettorale, soglie implicite ed esplicite, numero dei seggi assegnato alle circoscrizioni, premi in seggi, dimensioni delle assemblee parlamentari, tipo di scheda, ecc. Tutti questi aspetti, cuciti tra di loro in modo più o meno coerente, costituiscono le “leggi elettorali” che dovremmo essere in grado di apprezzare in termini di governabilità e/o rappresentatività. Ma non è ancora finita. Accanto a questi, ci sono poi altri aspetti noti come “legislazione elettorale di contorno” (finanziamento ai partiti, disciplina della campagna elettorale, regolamenti dei gruppi parlamentari, incompatibilità e conflitto di interessi, ecc.) che influenzano anche, e in maniera rilevante, l’esito del voto in termini di rappresentatività. Che può fare una legge elettorale maggioritaria o proporzionale rinforzata per ridurre il numero dei partiti se questi si formano non nell’elettorato ma da scissioni, divisioni e trasformismi parlamentari? Nel panorama politico nazionale, degli ultimi venti anni, solo Fi e il M5S sono, come si diceva una volta, partiti di origine esterna (alle istituzioni). O, ancora, che senso ha avere leggi elettorali con esiti maggioritari se le norme sul finanziamento dei partiti incentivano la frammentazione dei gruppi al fine di appropriarsi di un plusvalore che è smodato, diffuso e senza controllo?

Quindi, i dettagli sono importanti. Ma c’è un’altra faccia del diavolo che abbiamo rimosso dal nostro dibattito sulle riforme. Iniziamo con il dire che le riforme istituzionali diventano centrali in fasi di crisi degli assetti istituzionali e politici di un Paese. In Italia, fino alla fine degli anni ’70 (l’assassinio di Moro è uno snodo cruciale) le riforme di cui parlano i partiti di massa, Dc e Pci, erano politiche (riforme) sostantive: la riforma agraria, della casa, del lavoro, della scuola ecc.. La parola d’ordine era attuazione della costituzione. I “partiti chiesa”, per riprendere un’espressione di Giorgio Galli, dovevano limitarsi a sintonizzarsi con le dinamiche sociali. Era la loro capacità di canalizzazione e mobilitazione delle masse che contava. Sul piano sistemico contavano gli equilibri di forza tra partiti, puntualmente fotografati da una proporzionale quasi pura. Nella prima fase della storia repubblicana la questione delle riforme istituzionali restava limitata a partiti minoritari (il Partito d’Azione), a singole personalità (Calamandrei, Maranini) o, a brevi fasi, fino al 1953 con la Dc di De Gasperi. Solo quando un “partito minore”, il Psi craxiano, non riusciva ad allineare presenza nelle istituzioni e nel mercato elettorale il tema delle riforme istituzionali entrò in agenda e per restarvi fino ad oggi. Quanto agli esiti questa è un’altra storia. Allora le riforme avrebbero dovuto aiutare a rendere il sistema politico più efficace ma anche a favorire quell’allineamento di cui dicevo (il sospetto di Dc e Pci allora fu massimo).

In questo senso ogni riforma istituzionale, tanto più quelle elettorali, comporta una tensione tra aspetti di “efficienza”, migliorare il rendimento istituzionale, e di “redistribuzione”, chi vince e chi perde non solo come partito ma, soprattutto oggi, come leader e con quale squadra di seguaci. Se è così il non detto dell’Italicum, è proprio da ricercarsi nelle condizioni politiche.

In effetti, la riforma Renzi deve affrontare tre vincoli stringenti che vorrebbe trasformare in risorse grazie alla predisposizione di opportuni “meccanismi di conversione”. Primo, i principali partiti con aspirazioni di governo sono partiti ridotti a “taglie piccole”, ciò si è verificato dal ’94, oggi oscillano tra il 20 e il 25% o poco più. Troppo poco per essere a vocazione maggioritaria nel Paese, quindi hanno bisogno di norme che costruiscono maggioranze artificiali. Secondo, le squadre in campo sono coalizioni e qui il punto diventa se e come il socio di maggioranza (molto relativa) riesca a controllare soci minoritari e irrequieti. Si è suggerito che, nei regimi parlamentari, le coalizioni si dovrebbero costruire eventualmente dopo le elezioni (come in Inghilterra o in Germania), Italicum persevera nella direzione opposta, resta comunque il fatto che coalizioni eterogenee e frammentate sono un “problema” per l’azione di governo. Terzo, i partiti che si definiscono come i “naturali” aspiranti al governo del Paese devono fronteggiare ancora una volta la sfida di un outsider. Oggi, il M5S e Grillo, ieri Fi di Berlusconi e la Lega (allora) di Bossi. Il doppio turno, in genere, è un buon modo per ridurre i margini di manovra di forze politiche non coalizzabili perché tendenti alla radicalizzazione. A questi tre aspetti, se ne può aggiungere un quarto. La consapevolezza che oramai in Italia la politica non sia più un fatto di identità condivise, di soggetti collettivi, di forze politiche ma che sia semplicemente una competizione tra squadre di leader dove tutto il resto, a partire dai programmi, diventa strumentale.       

     Ma può una riforma, che è fatta da norme e congegni tecnici, risolvere per incantesimo il vuoto di una politica (sempre meno) di massa? Possiamo confidare solo sulla riforma elettorale per far fronte ai problemi di leadership (troppo forte a destra e troppo debole a sinistra), di fiducia con i cittadini e di qualità complessiva della nostra democrazia? Può la riforma creare partiti coesi e coalizioni “viabili”? E a che ci serve la riforma elettorale se poi le decisioni più importanti vengono prese da istituzioni e attori extranazionali?

 

*Università della Calabria

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