I giovani del passato migliori di quelli di oggi? Ma se hanno lasciato un mondo di schifo!

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Circola tanto sul Web, anzi vircola, una intensa e accigliata notazione del professor Roberto Vecchioni, ripresa con convinzione anche da alcuni miei colleghi, non pochi docenti, severi sociologi e pedagogisti, zelanti influencer dell’Inquisizione e giornalisti originalissimi. 

Benintesi, anch’io sono anziano, sono un boomer di nostalgie al pistacchio caramellato. Quella dell’ottimo Vecchioni (un cognome, un’analisi) non  può essere liquidata come un pippone dal vago sentore archeologico, né come una lunga Oshata sui luoghi comuni del “dagli addosso alle vite dei ragazzi di oggi magnificando i tempi andati”. Vecchioni infatti è un alto profilo, sono il primo ad inchinarmi. Nondimeno, la sua “filippica forse a tratti un tantino passiva-aggressiva” chiede discernimento. Merita una sosta.

Io uso un mio neologismo (poco originale) per dare un nome a questo atteggiamento intellettuale: “nostalgismo ideologico”. Una postura antropo-teologica che idealizza e mitizza interamente il passato e l’approccio degli umani pre-digitali, biasimando più o meno esplicitamente lo stile di vita degli esseri digitali. Una “mistica dell’insulto” senza epifanie, insomma. Un condannare senza dirlo. Un giudicare senza tentare di capire. Attraverso l’esaltazione di chi c’era prima (se stessi). Il tutto in ossequio a una miopia elettiva e autoreferenziale che inclina a vedere in superficie solo una parte di quel mondo andato e solo una parte di quello attuale, al fine di confermare comunque il teorema di partenza.

Dice Vecchioni: “Sono vissuto negli anni ’60 … ” soggiungo io: vale anche per i miei anni ’70 e ’80 “… e, guardando i ragazzi di oggi, posso dire che sono felice di essere nato in quegli anni. Non c’era il cellulare, Facebook, Twitter e quando dovevamo vederci per giocare citofonavamo a casa del nostro amico e chiedevamo alla sua mamma se poteva scendere a giocare.”

Roberto (perdona la confidenza, riflesso della mia stima) ti rivelo un segreto: tuttora i bambini si mettono d’accordo per incontrarsi dove e quando possibile. Il cellulare semplifica enormemente l’organizzazione. E se non possono incontrarsi ogni giorno, comunicano e giocano attraverso i cellulari, invece di guardare la TV o restare soli a casa (cosa sarebbe stato, ad esempio, l’orrore del lockdown, senza le opportunità digitali?). Il citofono è romantico. Ma non è un must. 

Andiamo avanti. “Non avevamo bisogno di abiti alla moda firmati tanto li sporcavamo ogni giorno.”

Ti assicuro che nella quotidianità oggi bambini e adolescenti non vestono firmati. Se non in cinese. E una maggiore attenzione all’igiene personale non costituisce certo una minaccia per la civiltà. 

“Ci emozionavamo per un bacio sulla guancia.”

Ti garantisco che anche oggi i corpi anelano, si accendono e arrossiscono. Guarda bene. I baci essenziali non sono invisibili agli occhi.

“Costruivamo capanne con tutto quello che trovavamo, giocavamo al ‘cuoco’ in giardino con terra e fiori. La fantasia era tutto. Non avevamo videogiochi, solo bambole e palloni. Vinceva chi lasciava la scia più lunga sgommando con la bicicletta.”

Quando possono scegliere, anche oggi preferiscono questi contatti reali, questi riti dettati dall’immaginazione, questa dinamica delle presenze (sport, giochi di ruolo, bici, amabili conversazioni …). Il cellulare non sostituisce, affianca. E anche mediante i cellulari e i tablet, essi socializzano, condividono, giocano, immaginano. È vero: dovrebbero leggere e disegnare e creare di più. Noi adulti dovremmo facilitare concretamente la logistica di un’alternativa all’uso compensativo dei dispositivi.

“Quando iniziava a fare buio sapevamo che dovevamo rientrare senza che nessuno ci avvisasse.” Oggi fortunatamente i genitori esercitano in genere un controllo maggiore sulle uscite dei piccoli. Non dimenticherò mai la faccia madida di mio padre (“urlo sicano di Munk”) quando io, a dieci anni, decisi che era simpatico giocare in un altro quartiere per rincasare una volta spente le luci dei lampioni. 

“Eravamo piccoli ma non ci fingevamo grandi, né vedevamo l’ora di diventarlo.” Non saprei. Io ricordo una cosa: a volte scimmiottavamo gli adulti. E tanti di noi bambini sognavamo di diventare come i grandi. Quanto meno per trascendere il Carosello delle 20.30. E altre regole allucinanti.

“Vivevamo in un mondo dove la sostanza contava molto più dell’apparenza, dove non si pubblicavano le foto dei pranzi su Facebook ma li gustavamo assieme alla nostra famiglia, perché la famiglia era tutto.” Le famiglie create successivamente da quei bambini di sostanza (da te osannati) si sono non di rado disgregate, devastate dallo tsunami delle coppie, dalla crisi della genitorialità … Non bastava mangiare insieme senza fotografare le lasagne. Evidentemente qualcosa sfugge alla tua analisi.

“I baci li davamo davvero, non mettevamo le faccine su una bacheca e i ‘ti voglio bene’ erano sinceri. Era più sostanza, non apparenza.” Dimentichi che regnavano sovrane anche la ferocia e la crudeltà del “bullismo” libero e indiscriminato (non si chiamava così e non era così stigmatizzato), nella forma di esclusioni, sopraffazioni, sfottò spietati, zuffe …

E soprattutto sottovaluti la gentilezza benefica di migliaia di cuoricini e smile e like per tutte (e tutti) le (e i) più fragili che altrimenti nessuno avrebbe “accarezzato” ogni giorno. Perché, paradosso incredibile a porsi, nell’inferno non dantesco dei social, è più facile dirsi “quanto sei brutta” ma è più facile dirsi anche “wow, come sei bella”.

Infine, Roberto, diciamola tutta. Nel passato, se citofonavi alla casa dei grandi e profondi temi come l’inclusione, la tolleranza, l’ambiente, la disabilità, la convivenza nella diversità (religiosa, etnica, culturale, estetica), insomma, se citofonavi alla casa di queste sensibilità “moderne”, spesso dall’altra parte non rispondeva nessuno. Proprio nessuno.

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