“HA DA PASSÀ ‘A NUTTATA” . LE QUOTE ROSA E LA MIOPIA DEL LEGISLATORE

Vorrei richiamare l’attenzione su un aspetto lasciato in ombra della recente bocciatura (martedì 11 marzo) dell’articolo che prevedeva l’alternanza di genere (c.d. quote rosa) nelle liste elettorali per l’elezione della Camera dei deputati. Mi riferisco al tema della qualità della rappresentanza politica. Si tratta di una questione che costituisce il tallone di Achille delle democrazie del XXI secolo e non a caso, specie oltreoceano, c’è un ritorno di attenzione sulla rappresentanza e sulle sue implicazioni per la teoria democratica. In breve, qual è la qualità rappresentativa di una democrazia? La domanda non è oziosa perché dalla sua risposta discendono le indicazioni sulla qualità stessa delle nostre democrazie e sulla loro legittimazione agli occhi delle donne e degli uomini che le abitano. C’è ovviamente la questione, urgente in Italia, della riforma elettorale e di come valutarla. Ma c’è anche un diverso aspetto che merita altrettanta se non maggiore attenzione. Dicevo, prima, donne e uomini e non casualmente. In effetti, un modo per assicurare il collegamento tra istituzioni elettive e cittadini è, tanto più oggi, quello di guardare alla loro “rappresentatività”, o come si dice alla loro rappresentanza sociologica o specchio. Quanto le nostre istituzioni (partiti, assemblee, governi non solo nazionali) consentono l’accesso e danno ruolo incisivo alle minoranze e, da noi, soprattutto alle donne e ai giovani? Quanto riflettono la ricchezza e la vitalità delle società che sovrastano? L’ultimo parlamento quello eletto nel 2013, grazie al M5S e alle primarie del Pd, al riguardo è un’assoluta novità, ancor più di quello del 1994. Il caso italiano, come è noto, fino al 2013 presentava un tasso di presenza femminile in parlamento inferiore al 20%, il più basso tra le democrazie occidentali.  

Si dice che in molti regimi autoritari (in testa l’Unione sovietica, ieri e la Cina, oggi) il massimo di forza riflettente dei parlamenti va a braccetto con sistemi nel complesso liberticidi e non pluralisti. Ma questo non è un argomento contro, ma piuttosto a favore: proprio perché autoritari questi regimi avevano bisogno di una rappresentazione del loro funzionamento centrata su un effettivo e autentico idem sentire con il popolo. Per esteso, anche le nostre democrazie e soprattutto i nostri partiti in deficit di fiducia hanno la necessità di riannodare i legami con la società, appunto portandola dentro le istituzioni. Ciò non solo produce legittimazione, ma anche quella che chiamo un’innovazione per forza di inerzia frutto della semplice circolazione delle élite, più donne e più giovani. In questi anni abbiamo posto molta attenzione al ricambio (alternanza) del governo, meno alla circolazione delle élite, al ricambio delle “nuove” èlite. Quando guardo le statistiche e parlo con gli studenti ho la netta impressione, parafrasando al rovescio i fratelli Cohen, che il nostro “non è un paese per giovani” e nemmeno per donne. Un paese nel quale i privilegi si sono cristallizzati (già nei primi anni ’80 Pietro Barcellona parlava di “ritorno allo status”), il cumulo delle cariche è la regola e le gerontocrazie regnano indisturbate. Il “patto mitico” che lega rappresentanti e rappresentati, donne e uomini alle istituzioni, non solo politiche – basti pensare alla scuola e alle imprese ma forse dovremo cominciare a discutere anche dei “buchi di vuoto” (la frase è il titolo di un racconto di Elfride Gaeng) che riempiono le nostre famiglie –,  appare incrinato. Quanto (ir-)rimediabilmente? 

Senza fiducia istituzionale e sistemica la democrazia è dimezzata, debole. Ha difficoltà a far fronte alle grandi sfide che richiedono sacrifici e abnegazioni, e mal riesce a limitare le reazioni opportunistiche di individui e gruppi (particolarismo e corporativismo). Mi sono convinto che uno dei motivi per cui in Italia le liste bloccate non funzionano è proprio perché si sono ridotte a nomine arbitrarie (dall’alto), a forme di manifestazione di scelte discrezionali (potere) e, dunque, senza fiducia (dal basso). Qualunque esito ci sembra insopportabile perché lo riteniamo non credibile (la selezione dei peggiori) e non affidabile (gli eletti faranno i loro interessi). Soprattutto non crediamo più nel “selettorato”, nel gruppo ristretto che sceglie e nomina. Ma se manca radicalmente la fiducia (“tanto sono tutti uguali”) qualunque meccanismo di selezione sarà insoddisfacente (voti di preferenza e collegi uninominali compresi). La cultura avvolge e dà senso alle regole formali. Così, quando i deputati della Camera, martedì 11, hanno votato contro l’alternanza tra uomini e donne nelle liste elettorali, adducendo esigenze pseudo-costituzionali o tattiche, si sono comportati come quel naufrago che per ammazzare il tempo bucherellava la zattera nella quale aveva trovato salvezza.

Fuori di metafora, la nostra classe politica ancora una volta ha perso l’occasione per mandare al paese un grande messaggio simbolico volto a ristabilire la fiducia. Certo i “maschietti” eletti avrebbero visto i loro numeri ridursi drasticamente alle prossime elezioni ma se si vuole costruire un legame fiduciario, tanto più se il passato evoca ricordi non edificanti, occorre (tanto nella vita quotidiana come in politica) mettersi in gioco, dare l’esempio, rinunciare a qualcosa. Ma chissà, come stiamo apprendendo da una pedagogia distorta della crisi, forse per molti deputati (e temo non solo) il punto è ancora una volta “ha da passà ‘a nuttata” per ritornare a fare come prima e con più accanimento di prima.         

*Università della Calabria

 

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