E IL CAPODANNO DOVE LO METTO?

Torniamo brevemente al sottotema proposto nell’occasione dello speciale San Martino dell’11/11/11, quello delle convenzioni temporali, che si sovrappongono alla concretezza del tempo oggettivo e che tuttavia sembrano avere la capacità di creare una realtà altra, di grado superiore rispetto a quella dentro la quale siamo immersi. L’occasione, ovviamente, ci viene offerta dalla ricorrenza del capodanno che, fra tutte le celebrazioni – laiche o religiose – è quella che più ha implicazioni di ordine temporale, pretendendo addirittura di segnare, ciclicamente, il passaggio da un’entità ad un’altra: l’anno precedente che cede il posto all’anno successivo.

Le convenzioni umane non sono cose da ritenere di poco conto: senza di esse la civiltà di questo pianeta – poco o molto che abbia prodotto – non esisterebbe. Persino lo strumento principale della genesi di ogni cultura, il linguaggio, non avrebbe il peso e la fisionomia che ha se non nascesse soprattutto dalla sovra imposizione delle regole formali che governano la grammatica di una lingua rispetto ai meccanismi della comunicazione istintuale, che sono tipici delle specie animali a noi più prossime.

Dunque, massimo rispetto per le convenzioni.

E tuttavia, dinnanzi a certe manifestazioni emotive e psicologiche quali quelle cui assistiamo nella ricorrenza suddetta non possiamo che sorridere, di un sorriso non sarcastico bensì amaro: l’impellenza che costringe le persone a vivere, per una manciata di ore, la fatidica mezzanotte del 31 dicembre come una varco attraverso cui avviene un passaggio non può che rimandare ancora una volta a quella cosa che sovente i semiologi chiamano il vuoto della significazione, ovvero l’assenza che spinge alla creazione di una presenza virtuale. Il meccanismo la cui comprensione è indispensabile per capire poi tutto il resto è, semplificando molto, questo: il significato di una parola non è la cosa reale e concreta a cui la parola rimanda nel contesto reale in cui è usata bensì il concetto astratto dentro il quale si raccolgono le diverse infinite esperienze sensoriali, percettive e motorie che facciamo in relazione alle cose. Così è chiaro come il significato della parola “cane” non sia quel cane, quello specifico cane dei vicini che ci rompe le scatole, ma l’infinita varietà di “oggetti” cani che si raccolgono sotto il concetto relativo. Senza questo meccanismo non c’è linguaggio, né cultura.

L’assenza, cioè il rapporto pieno della parola e del concetto dietro il quale spinge, urge la mancanza della cosa reale, è una delle prime esperienze fondanti che facciamo da piccoli e che, gradualmente, ci rende necessario attrezzarci per riempire quel vuoto con i surrogati “simbolici”. Altrimenti perché mai dovremmo affezionarci così tanto agli oggetti materiali, se non per metterli al posto di quelli immateriali che contano veramente: il sorriso di nostra madre, il contatto delle sue mani, il suono della sua voce, il suo odore. Il suo amore.

Veniamo da lì e – tutto sommato – lì fondamentalmente restiamo.

Buon anno a tutti.

 

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