CHI ASCOLTA I BAMBINI?

Perderei ore intere della mia vita ascoltando la mia nipotina Clara di cinque anni.

Ostinazione persistente dell’adulto è quella di non ascoltare i bambini senza minimamente realizzare che, essendo la voce dell’innocenza ancora non deturpata dall’ostile realtà che ci circonda, la omettiamo e guardiamo oltre, quasi a pensare che ci sia altrove qualcosa di cui e su cui fare affidamento.

Viviamo in una realtà dove lo spazio per pensare è sempre più ridotto e “l’es­sere” soffocato “dall’avere”.

Le condizioni di lavoro precarie di molte donne (basti pensare alle lavoratrici extracomunitarie e alla diffusione del lavoro nero) fanno sì che questi tempi si riducano vertiginosamente, con le inevitabili conseguenze su un bambino non più grande di un anno, che si trova improvvisamente scaraventato in ritmi e luoghi estranei.

Per un bambino molto piccolo il senso di continuità e coesione di sé si strut­tura a partire dal rapporto con il care giver (più spesso la madre) ma anche con l’ambiente circostante: suoni, luci, odori costituiscono elementi importanti per il senso di sicurezza.

Separazioni brusche e radicali possono generare stati di angoscia che evolvo­no in situazioni depressive: il bambino esprime inizialmente la sua protesta con il pianto, in seguito con alterazioni del ritmo sonno-veglia e regressioni, arrivan­do talvolta a stati di ritiro dalla relazione.

Anche sul versante materno non è difficile immaginare l’ansia di una madre costretta a lasciare in fretta il bambino piangente a un’educatrice che non ha avuto il tempo di conoscere, per correre al lavoro.

Spesso quando la mamma torna a prendere il piccolo al nido o a scuola, la situazione peggiora: la donna è stanca e si sente in colpa, il bambino nervoso e intrattabile… Cibo e televisione, per i bambini più grandi, assumono il ruolo di calmanti e intratte­nitori.

Una madre stremata dai ritmi di lavoro in casa e fuori, può sentirsi in colpa per il poco tempo da dedicare al bambino. A livello psichico il senso di colpa ten­de a produrre aggressività verso l’oggetto che ne è la fonte, creandosi un circolo vizioso tra colpa e aggressività. Per compensare questi sentimenti la madre può proiettare sul cibo una valenza positiva, attribuendo all’alimentazione la funzio­ne di farla sentire una buona madre, secondo un’equazione cibo – amore.

Inevitabile che il bambino apprenda la lezione, spostando la richiesta di rela­zione sull’attesa di cibo o più in generale, di “cose”: oggetti concreti da avere, da esibire, surrogati di un senso di sicurezza e di identità precario.

Il senso di vuoto, l’assenza di parole e spazi di relazione possono manifestarsi attraverso l’inquietudine dei bambini, la loro agitazione afinalistica, l’incapacità di concentrarsi o lo spendere sempre più tempo davanti al televisore e in giochi ripetitivi al computer.

Molte ore di televisione sviluppano un atteggiamento passivo mentre ascol­tando una favola o leggendo ognuno attiva il proprio immaginario, “crea” i suoi personaggi, “vede” i luoghi descritti.

Quale potrebbe essere dunque la soluzione? Si spera di cercare rifugio e sollievo al dolore e alla rabbia che non sappiamo rappresentare, privati delle parole e del significato di ciò che siamo.

Sicuramente mancano quelle parole che sprigionano le forze per reagire all’immobilismo del silenzio: la parola semplice ma ricca di significato per raggiungere il cuore di un bambino che aspetta la mamma per essere ascoltato e soprattutto per essere capito.

 

 

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