Avis ibleo: miracolo spiegato grazie alla natura delle nostre donne

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Credetemi, questa storia non è un pandoro. Esiste un “caso Ragusa”. Può vantare ancora nel 2023 il record nazionale di donazioni: quasi 16.000. Più di 10.000 donatori, quasi 900 nuovi iscritti. Insomma, più di un terzo delle donazioni di sangue della Sicilia sono il dono della provincia di Ragusa.

Diciamolo. La comunità dei ragusani, per quanto riguarda le molteplici patologie che necessitano della trasfusione di sangue (e non solo), tiene letteralmente in vita il sistema sanitario regionale. 

L’enigma: cosa ispira da anni il prodigio di un numero fluviale di donazioni del sangue? Altrimenti detto, perché qui e non altrove?

Come ho già scritto in passato, alcune spiegazioni sono ovvie. E le ragioni abitano tutti i piani (dirigenti e operatori) della grande Casa Avis. La professionalità, la squisitezza, l’attenzione, la promozione, il radicamento, la generosità iblea (e via dicendo). Tuttavia questi ingredienti da soli non bastano a svelare la secreta ratio di una così profonda anomalia del Cosmo.

Una lettura croccante e maliziosa sopraggiunge da Harvard: il movente inconfessabile riposa forse nei cornetti alla crema offerti a suggellare infine il prelievo. Ci sta. Ma non è sufficiente a sciogliere il busillis.

Certamente, la vocazione al dono, il talento civile, l’etica della comunità, la proverbiale e antropologica sensibilità dell’etnia ibleo-sicana sono parte della risposta. La donazione infatti è anche una scelta civile, etica, riflette il senso di responsabilità individuale nella sua declinazione più feconda: il sentimento della solidarietà collettiva inciso nell’idea della comunità. 

In una società nella quale invece l’io vince sul noi. Laddove prevalgono le convenienze o istanze personali. E anche il rapporto con la politica sovente non sembra riguardare il bene comune, ma il bisogno individuale immediato.

La luce delle donazioni a Ragusa risalta oggi ancor più sullo sfondo cupo del disimpegno politico e civile, dell’astensionismo dilagante, del “disinteresse giovanile” (e non solo) nel Paese.

E ancora, mentre negli altri Paesi europei il numero delle donatrici è largamente superiore, in Italia solo il 33% di chi dona sangue è donna, ma a Ragusa il contributo femminile sale al 39% almeno, il che incide significativamente nel riscontro finale. La donna iblea è più europea insomma. Una differente fisiologia può generalmente spiegare la minore propensione femminile a donare. Nonostante ciò, a Ragusa il contributo femminile sale al 39% almeno: la peculiarissima natura psicosociale della donna ragusana è parte della risposta al nostro busillis.

Un’altra ragione antropologica sarebbe invece legata alla unicità della fisionomia del contesto: la città e la provincia di Ragusa hanno la dimensione fisica e culturale giusta affinché si verifichi da sempre il prodigio di una comunicazione circolare, continua ed efficace. È come se i social fossero esistiti da sempre in questa Net del sud-est della Sicilia. Il contagio, nel senso più nobile e virtuoso finalmente, si propaga e attecchisce più facilmente e potentemente in un giardino di vasi comunicanti e sentimenti condivisi. La parola, il passaparola, l’insorgenza di mode e trend di massa, l’esempio, il contatto, in un micromondo né troppo dispersivo né troppo claustrofobico come il nostro, generano miracoli e misteri.

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