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Femminicidio: quando le parole continuano a uccidere. La rubrica di Cesare Ammendola
26 Ago 2021 10:55
“Houston …! Qui Ragusa”. La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola.
L’ennesimo femminicidio, a due passi da casa nostra, inclina ognuno di noi a una riflessione amara. La mia è inevitabilmente polemica. Vi risparmio e mi risparmio volentieri psicologismi o pipponi pseudo-accademici sul “maschio alfa” e i “Peter Pan dello sviluppo emotivo” o la retorica del rispetto dovuto alla quota rosa del cielo. Adesso anche il richiamo culturale e civile alla necessità di una pedagogia della non-violenza rivolto a scuola, famiglia, società, seppure nella sua nobiltà, rischia di essere sterile e poco centrato.
Non stiamo parlando infatti di maschietti burberi e sgarbati nei confronti dell’universo di creature ritenute “inferiori” (e dunque “assoggettabili”).In casi come quest’ultimo, in cui un uomo adulto, come riportato dai giornali, avrebbe sparato in pubblico a una ragazza, per poi togliersi la vita, impiccandosi, il livello del dilemma è un altro. E altro forse dovrebbe essere l’approccio: tecnica e pragmatismo, meno “fuffa da salotto psicoanalitico”.
E altro dovrebbe essere anche il linguaggio per interpretarlo. Dovremmo forse imparare a chiamare le cose col loro nome.
L’uomo non ha “punito la sua ex ragazza, perché non accettava di non averla più”. Così direbbe la narrativa che riecheggia qua e là, ad esempio, nei commenti sui social. No. Se quanto riferito dai giornali è esatto, l’uomo ha “rubato la vita a una donna libera di soli 26 anni, dopo non averla mai avuta in possesso”.Perché le donne, i figli, le persone non sono mai e in nessun modo un “possesso” del maschio. Ovvio, no?E lei non aveva affatto “sottovalutato”: lo aveva denunciato per stalking.
Le parole hanno un peso. Abbiamo bisogno anche di una rivoluzione semantica.Lui era ai domiciliari. Con il controllo che la legge prevede attualmente per i domiciliari. Poi, rilasciato, aveva il divieto di avvicinarsi a lei.Perché la tragedia allora? Dov’è l’anello mancante?Persino uno psicologo maschio come me lo comprende: le leggi e le strategie contro il femminicidio le pensano e le realizzano essenzialmente gli uomini. Non le donne.
Io credo che, se le donne avessero realmente potere e l’ultima parola sull’argomento, pretenderebbero una legge per la quale, alla prima minaccia reale e provata “sotto casa”, seguirebbe sempre: 1) un severo approfondimento diagnostico del soggetto (“anamnesi”, “profilo”, “inclinazioni”); 2) un monitoraggio costante e una restrizione e/o definizione concreta dei suoi spostamenti (la tecnologia lo consentirebbe).
Donne psicologhe, ad esempio, come e più di noi, intuirebbero il pericolo rappresentato dagli stalker. Leggi più “femminili e materne” inciderebbero sul marmo le regole della più rigorosa prevenzione. Laddove con “materne” alludo alla risolutezza protettiva delle madri (nei confronti dei loro piccoli indifesi).Diagnosi e leggi e azioni concrete avrebbero salvato forse decine delle 134 vittime di quest’anno solare. Io la vedo così.Lei aveva chiesto aiuto. E spero che il suo sacrificio ci insegni qualcosa. O almeno, ci impedisca di tessere quella ricorrente retorica stronzeggiante, secondo la quale le donne subiscono perché non hanno sino in fondo il coraggio di denunciare. Sarebbe crudele. Perché le parole, che usiamo nel raccontare una tragedia, possono uccidere ancora una volta.

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