LA LIRICA TROBADORICA

Il movimento trobadorico  è il primo movimento poetico della letteratura europea in lingua volgare. Esso nasce a sud della Francia verso la fine dell’XI secolo e si afferma nel corso del XII e XIII, divulgandosi prima a nord e poi anche fuori dai confini francesi, in Germania nella penisola iberica e in Italia.

La sua origine è legata alle ricche corti  feudali occitaniche (Linguadoca) i cui mecenati favoriscono un nuovo stile di vita più alto e raffinato  e profondi mutamenti ideologici e di costume.

Si caratterizzano quindi, con la vita di corte  e la sua centralità, l’insieme dei valori ad essa connessi e, di conseguenza, un’epoca e una civiltà detta appunto cortese.

Espressione letteraria della nuova società è la lirica trobadorica, che definisce un codice preciso  di comportamento e un sistema di valori a sua volta modello di riferimento anche per la società.

Interprete è una originale figura di poeta che compone in lingua volgare, possiede un ottimo bagaglio di conoscenze tecniche e culturali e svolge questa attività da professionista: il trovatore (prov. trobador, fr. truvère). Il nome pare derivi dal latino-medievale tropatore  (come trobar da tropare), “inventore di tropi” . Il tropus è un genere di  componimento  in versi, con musica, che veniva inserito nel canto liturgico, e in era voga nel corso dell’XI secolo, soprattutto  nell’abazia di san Marziale di Limoges, poco prima della grande diffusione della lirica occitanica nella regione dove ebbe inizio.

Il trovatore è compositore sia della poesia che della musica: testo e melodia (motz e son) sono inscindibili  nella lirica provenzale, dato che è destinata alla recitazione e al canto non alla lettura.

L’esecuzione avviene ad opera dello stesso trovatore, oppure, spesso di un giullare (joglar, dal latino joculator, -oris buffone, giocoliere), esponente dell’ampia categoria dei mimi, musici, istrioni che popolavano le corti e le fiere e specializzato  nella recitazione poetica e musicale.

C’è comunque una divisione professionale del lavoro letterario, per cui il trovatore compone, “inventa”, lasciando al giullare la funzione di esecutore e diffusore; la separazione non è però così netta come potrebbe sembrare, perché non mancano esempi di giullari che sono anche compositori e viceversa.

Fra le corti del sud, si distinguono per importanza e fama quella di Poitiers, celebre sia perché vi appartiene il primo trovatore a noi noto Guglielmo IX d’Aquitania, conte appunto, di Poitiers, sia perché vi operò Eleonora d’Aquitania protettrice di diversi illustri  poeti  e letterati: le corti del Limosino (Limoges, Ventadour, Comborn, Turenne), di Tolosa, Narbona, Montpellier e quelle della Provenza propriamente dette.

I 2542 componimenti trobadorici, a noi noti attraverso un centinaio di manoscritti, si ripartono tra circa 350 poeti  dei quali si conosce almeno il nome e parecchi altri anonimi. Solo ad alcuni si abbina un repertorio di ampie proporzioni: Marcabru (prima metà del XII secolo), Bernart de Ventadorn (che ha operato tra il 1147 e il 1170) Bertrand de Born (ca. 1140 – ca. 1215), RAinbaut d’Aurenga, Peire Vidal, Raimon de Miraval. Accanto a queti , ci sono anche altri illustri esponenti  della produzione provenzale come Jaufre Rudel, Rigaut de Berbezilh, Peire d’Alvernha, e altri, ma non va dimenticato l’apporto di  alcune poetesse (trobairitz) come Azalais de Porcairagues o la Comtessa  de Dia.

Compongono in provenzale anche parecchi poeti italiani come Percivalle Doria, Bonifacio Calvo e Lanfranci Cigala, genovesi; Rambertino Buvalelli, bolognese; Bartolomeo Zorzi, veneziano  e il mantovano Sordello.

Di molti trovatori sono giunte fino a noi le biografie (vidas), spesso integrate dalle razos (commenti) dedicate alla narrazione delle circostanze in cui certi testi sono stati composti: redatte nel corso del XII secolo, in prosa  e in lingua d’oc e risultano documenti di grande utilità, perché ricchi di informazioni, anche se non sempre del tutto attendibili.

La condizione sociale dei trovatori è eterogenea: accanto ai nobili feudatari (principi e re), a prelati, monaci e cavalieri ci sono poeti di umili origini, o appartenenti a strati intermedi (mercanti, artigiani). Da notare che nella società occitanica, pur vigendo la gerarchia feudale, queste differenze di classe sembrano superate all’interno dell’aristocratica cerchia  dei trovatori, come se i medesimi ideali  e la consapevolezza delle capacità tecniche e culturali fuori del comune costituissero una classe a sé stante. La diversa estrazione sociale si rifletterà invece sull’uso della propria arte: per alcuni una professione, per altri un’attività collaterale.

Per un esempio ho scelto una composizione di Marcabru, una delle sue più originali, ossia la celeberrima L’autrier jost’una sebissa (L’altro giorno accanto a una siepe), il testo risale al 1140 circa. In un dialogo che è anche un dibattito ideologico sui rapporti tra classi sociali e sulle regole dell’amore ed è la pastora, “villana” per nascita, a dare lezioni di comportamento “cortese” al nobile che tenta invano di sedurla. La traduzione  è di C. di Girolamo.

 

L’AUTRIER JOST’UNA SEBISSA

 

L’altro giorno accanto a una siepe

Trovai un’umile pastora,

piena di gioia e di giudizio,

ed era figlia di contadina:

mantella e gonnella di pelle,

veste e camicia di tela grossa,

scarpe e calze di lana.

 

Verso di lei venni per la pianura:

“Ragazza”, dissi io, “creatura graziosa,

mi dispiace per il freddo che vi punge.”

“Signore”, rispose la villana,

“grazie a Dio e alla mia balia,

poco mi importa se il vento mi scompiglia i capelli,

perché sono allegretta e sana.”

 

“Ragazza”, dissi “essere dolce,

mi sono allontanato dal mio cammino

per farvi compagnia,

perché una ragazza di campagna come voi

non deve senza una compagnia adatta

pascolare tanto bestiame

in questa terra solitaria.”

 

“Signore”, fece lei, “quale che io sia,

so distinguere bene tra il senno e la stupidità.

La vostra compagnia”,

questo disse la villana,

“stia lì dove conviene,

perché c’è chi crede di tenerla al suo comando,

ma non ne ha altro che l’apparenza.”

 

“Ragazza di nobile condizione,

vostro padre fu un cavaliere,

che vi generò in vostra madre,

perché fu una cortese villana.

Quanto più vi guardo, più mi sembrate bella,

e m’illumino per la gioia che mi aspetto da voi,

se solo foste un po’ benevola.”

 

“Signore tutto il mio lignaggio e la mia famiglia

vedo che risale e che appartiene

alla vanga e all’aratro,

signore”, disse la villana;

“ma chi si spaccia per cavaliere

dovrebbe farlo

sei giorni alla settimana.”

 

“Ragazza”, io feci, “una fata gentile

vi dotò, quando nasceste,

di una bellezza meravigliosa,

superiore a qualsiasi altra villana;

e vi sarebbe raddoppiata

se una volta potessi vedermi

io di sopra e voi di sotto.”

 

“Signore, mi avete fatto tante lodi

che dovrei essere molto invidiata per questo.

E poiché mi avete esaltata nei miei meriti”,

disse la villana,

“di ciò avrete come ricompensa

alla partenza: ‘Aspetta e spera cretino!’

e un’inutile  perdita di tempo a mezzogiorno.”

 

“Ragazza, un cuore schivo e selvaggio

si doma con la consuetudine.

Ben capisco, andando avanti,

che con tale ragazza di campagna

si può fare una buona compagnia

con amicizia di cuore,

senza che ci si inganni a vicenda.

 

“Signore, l’uomo che è preso nella sua stupidità

giura e garantisce e promette ricompense;

così mi rendereste omaggio,

signore”, questo disse la villana;

“ma per un misero guadagno

io non voglio scambiare la mia verginità

con il nome di puttana.”

 

“Ragazza, ogni creatura

ritorna alla natura.
Noi dobbiamo prepararci a fare coppia,

io e voi, villana,

a riparo della siepe lungo il pascolo,

dove sarete più sicura

per fare la dolce cosa.”

 

“Signore, sì; ma a buon diritto

lo stupido cerca la stupidità,

il cortese, l’avventura cortese,

e il villano la villana.

Viene meno il giudizio

là dove non si conserva la misura,

così dicono i vecchi.”

 

“Bella, non ho visto nessun’altra

della vostra bellezza più perfida

e più traditrice nel suo cuore.”

 

“Signore, la civetta vi dà il malaugurio,

perché c’è chi si incanta davanti a un dipinto

e chi aspetta la manna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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