WILLIAM SHAKESPEARE

Nel 1564, a Stratford-on-Avon (Inghilterra Centrale), nacque William Shakespeare. La sua famiglia era agiata e numerosa, ma in seguito al peggioramento della situazione economica di questa, abbandonò gli studi e si dedicò col padre all’esercizio della mercatura.

A ventidue anni si sposò e in breve tempo ebbe tre figli. Intorno al 1586 si trasferì a Londra, affermandosi  come autore e attore presso i teatri Blackfriars e Globe.

I due poemetti Venus and Adonis (Venere e Adone 1593) The rape of Lucrece (Lucrezia violata 1594), di argomento amoroso, consacrarono Shakespeare come poeta, fama consolidata poi, dai celebri  ed estremamente  raffinati Sonnets (Sonetti) composti, si presume, negli anni seguenti e pubblicati nel 1609, senza la sua approvazione.

L’autore, del resto, di norma non presiedeva all’edizione delle proprie opere. Ancora vivente, vennero pubblicati solamente sedici dei suoi drammi, talvolta rielaborati arbitrariamente  dalla pratica teatrale.

Secondo la stesura e la rappresentazione, si pongono per primi, cronologicamente, alcuni testi di carattere storico, tra i quali Enrico VI (Henry VI, 1590), Riccardo III (Richard III, 1592), Romeo e Giulietta (Romeo and Juliet, 1594), Enrico IV (Henry IV, 1597), Enrico V (Henry V, 1598), e alcune commedie, in cui sono inseriti talvolta elementi leggendari e fiabeschi. Ne sono esempio La commedia degli errori (The comedy of errors, 1592), La bisbetica domata (The tamingof the shrew, 1593), Sogno di una notte di mezza estate (A midsummer-night’s dream, 1595), Il mercante di Venezia (The marchant of Venice, 1596), Molto rumore per nulla (Much ado about nothing, 1598); una sola commedia di carattere borghese ed è Le allegre comari di Windsor  (The merry wives of Windsor, 1600).

Con le sue opere William Shakespeare aveva già profondamente rinnovato il teatro europeo uscendo dai canoni dell’imitazione e del rispetto delle unità aristoteliche, e concretizzò la propria fortuna.

Anno fondamentale per lo scrittore fu il 1601, quando fallita la congiura del conte di Essex ai danni di Elisabetta I, rese durevole la stagione delle grandi tragedie, improntate a un cupo pessimismo: Amleto (Hamlet, 1600) Otello (Othello, 1604), Macbeth (1605), Re Lear (King Lear, 1606), parallelamente stese la triologia di storia romana Giulio Cesare (Julius Caesar, 1600), Antonio e Cleopatra (Antony and Cleopatra, 1606), Coriolano (Coriolanus, 1607).

Le ultime opere di Shakespeare corrispondono ai cosiddetti drammi romanzeschi e sono di tono più lieve: Racconto d’inverno (The winter’s tale) e Cimbelino (Cymbeline, 1610), La tempesta (The tempest, 1611).

William Shakespeare si ritirò a Stratford-on-Avon nel 1611 e vi morì nel 1616.

L’edizione  completa dei suoi testi teatrali (trentasei e con qualche problema di attribuzione), è del 1623.

Ed ora un breve brano dal Macbeth, atto I, scena V:

 

Macbeth: – La regina è morta?

La regina è morta!

Avrebbe dovuto morire più tardi; non sarebbe mancato il momento opportuno, per udire simili parole.

Domani, poi domani, poi domani: così, da un giorno all’altro, a piccoli passi, ogni donna struscia via fino all’ultima sillaba del  tempo prescritto.

E tutti i nostri ieri hanno rischiarato, a degli stolti, la via che conduce alla polvere della morte.

Spengiti, spengiti, breve candela!

La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e che si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.

 

E da Giulio Cesare, l’orazione funebre di Antonio:

 

Amici, Romani, compatriotti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cesare. Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cesare ne ha pagato il fio. Qui, col permesso di Bruto e degli altri – ché Bruto è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore – io vengo a parlare al funerale di Cesare. Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma Bruto dice che fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Cesare? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure Bruto dice ch’egli fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re ch’egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione? Eppure Bruto dice ch’egli fu ambizioso; e, invero, Bruto è uomo d’onore. Non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse, ma qui io sono per dire ciò che io so. Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione. Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cesare e debbo tacere sinché non ritorni a me.

 

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