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TEOFILO FOLENGO
16 Mar 2014 19:59
Girolamo Folengo, prese il nome di Teofilo nel 1509 quando divenne monaco benedettino.
Egli nacque a Mantova nel 1401 e risiedette, a partire dai sedici anni, in numerosi monasteri, spesso in compagnia del fratello Giambattista, con cui Teofilo restò sempre molto legato, anche nel sodalizio letterario. Tra queste sedi era particolarmente importante il monastero di San Benedetto Po, in territorio mantovano dove fu trasferito nel 1512 e che in quell’epoca ospitava un ricco ambiente intellettuale. Vivere l’esperienza monastica dette modo a Folengo di conoscere dall’interno i problemi e le crisi che all’inizio del Cinquecento travagliarono il mondo religioso e da cui prenderà spunti per sdegnate polemiche contro la corruzione del clero e le violente satire anticlericali. Inoltre, grazie anche all’incarico di amministratore delle proprietà dei vari monasteri, Folengo fu in grado di conoscere direttamente nei vari aspetti, la vita dei contadini.
Lui osserva il mondo rurale con forte distacco e senza alcuna partecipazione di umana simpatia. Nonostante ciò, questo ambiente fu un pilastro portante della sua opera e in particolare di quella maccheronica. Del resto Folengo non appartiene a questo mondo nemmeno per nascita, in quanto figlio di un notaio, che suscita invece il suo disprezzo e il suo sarcasmo nella sua satira contro il villano. Malgrado ciò saprà ritrarre l’ambiente con minuzia e attenzione realistica: dall’alimentazione alla flora campagnola, dalle superstizioni alle pratiche stregonesche e alle descrizioni delle feste rustiche. Con lo pseudonimo di Merlin Cocai, nel 1517 venne pubblicata a Venezia la prima edizione delle Maccheronee, comprendente più opere, articolate su modelli classici per dimostrare che quello speciale linguaggio è applicabile a generi ben diversi, ma tutti di illustre tradizione: il Baldus ne è il capolavoro (acclamato anche dal De Sanctis) è il corrispettivo maccheronico del poema epico; la Zanitonella, il corrispettivo all’egloga; la Moscheide, il corrispettivo del poema eroicomico, alla maniera della pseudo-omerica Batracomiomachia, senza dimenticare una serie di epigrammi.
L’elemento interessante in queste opere di Teofilo Folengo sta proprio nel linguaggio, strumento di comicità, di corposa espressività, di virtuosismo stilistico (un impasto di latino e dialetto mantovano, bresciano, veneto e altri) che l’autore riesce a portare al massimo risultato artistico. Ma altri due caratteri vanno considerati fondamentali: stilisticamente l’autore ricorre alla parodia di modelli e generi letterati classici (Virgilio, la bucolica , il poema eroicomico) e volgare (la poesia petrarchesca, il poema cavalleresco). L’altro carattere fondamentale che incide a livello tematico è la forte presenza del mondo popolare.
Nel 1525 per contrasti interni, di cui non si conoscono le cause, Folengo uscì dall’Ordine (seguito tempo dopo da fratello Giambattista) e si trasferì a Venezia, dove inizialmente si applicò esclusivamente all’attività letteraria per poi entrare come precettore a servizio di Camillo Orsini, capitano della Repubblica. In quelli anni, Venezia era un ambiente letterario particolarmente vivace oltre che centro tipografico di primo piano. Sotto lo pseudonimo di Limerno Pitocco, Folengo si dedicò alla letteratura volgare e pubblicò un poema cavalleresco in ottave, l’Orlandino, che narra gli amori di Milone e Berta, genitori di Orlando e la fanciullezza di questi.
Ben presto, però, chiese insieme al fratello, di essere riammesso all’Ordine e ciò gli viene concesso nel 1534, dopo un triennio penitenziale di vita eremitica a San Pietro a Crapolla e qui si dedica alla letteratura religiosa. Ebbe anche un periodo siciliano (1538-1542) trascorsi in monasteri palermitani e anch’esso caratterizzato da una importante produzione letteraria: un poema sacro in terzine, la Palermitana, la sacra rappresentazione Atto della Pinta, l’incompiuto poema latino Hagiomachia (La battaglia dei Santi).
La quarta e definitiva edizione delle Maccheronee uscì postuma, a Venezia, nel 1552.
Morì come priore di Santa Croce di Campese, vicino a Bassano del Grappa nel 1544.
E ora un breve brano dal Cingar, pronto di lingua lesto di mano (Baldus IV, vv 81-94).
Alter era Baldi compagnus nomine Cingar,
Cingar scampasoga, cimarostus, salsa diabli,
accortusque, ladro, semper truffare paratus,
in facie scarnus, reliquo sed corpore nervax,
praestus in andatu, parlatu, praestus in actu,
semper habens testam nudam, penitusque tosatum.
Praticus ad beffas, truffas, zardasque, soiasque,
deque suo vultu faciens plus mille visazzos,
et simulans varias sguerzo eum lumine morfas,
pochis vera loquens voltis, mala guida viarum,
namque domandantes quae sit via dritta camini,
insegnans tortam, comitum drizzabat in ongias.
Un altro compagno di Baldo si chiamava Cingar,
Cingar scampasoga, cimarrosto, salsa del diavolo,
astutissimo ladro, sempre pronto a truffare,
scarno di faccia, ma tutto muscoli nel resto del corpo,
svelto nel passo, pronto di lingua e lesto di mano,
portava la testa nuda e rapata per intero.
Abilissimo nel giocare beffe, truffe giarde e burle
con una faccia fatta apposta per contraffare mille ceffi
si fingeva guercio facendo ogni genere di smorfie,
quando parlava raramente diceva la verità e certo
non era una buona guida, perché, se qualcuno gli domandava
la strada più dritta, insegnandogli quella sbagliata
lo indirizzava verso le grinfie dei compagni.
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