SUL PALCO CON ASCANIO CELESTINI E IL SUO “PICCOLO PAESE”

L’arena del mare non è mai stata così tanto affollata. La gente sosta in ogni recondito angolo lasciato libero, pullula in ogni spalto, scala e scorcio di asfalto disponibile.

Alle 21.30 il tramonto inizia a riflettere il suo rossore sull’acqua del porto e il palco, montatovi dirimpetto, ne assorbe e riverbera la luminosità.

Lo spettacolo è di una inaudita suggestione.

Quando il rosso del tramonto inizia a far spazio al buio della serata inoltrata, sono le luci delle tante bancarelle del Suq a riflettersi sul pubblico, distribuito tra tappeti ai piedi del palco, panchine di legno, appositamente trasferite dalla sala conviviale interna e i gradoni delle scalinate.

L’attesa inizia a farsi snervante, anche perché lo spazio a disposizione è sempre meno e la folla sempre di più. Quando Ascanio celestini sale sul palco, però, non ci vuole molto ad abbandonare l’ansia da attesa per assuefarsi dei dialoghi portati in scena. È subito un exploit di provocazioni e stimoli alla riflessione, senza mai abbandonare la sottile ironia che lo caratterizza e lo accompagna tra battute sferzanti e racconti di accadimenti verosimili.

Come è consuetudine dell’attore-regista-attore-narratore, lo spettacolo si apre quasi in sordina, come se Ascanio chiedesse il permesso di quel suo stare sul palco, distante da quel pubblico con cui ha da sempre cercato un contatto diretto, privo di mediazioni.

L’intelligente ironia del Celestini si riconferma, così come la sua veloce parlantina.

La prima storia è una riflessione sulla vita, sulle vite, sul loro incondizionato o sminuito valore, perché “una pacca sulle spalle è meglio di un calcio nelle palle, ma il mondo, si sa, è come un’automobile, chi sta dentro decide se distribuire pacche sulle spalle o calci nelle palle!”.

Il secondo dialogo è fatto delle divagazioni di un uomo che assiste passivo allo sgocciolio del lavandino sul pavimento. Goccia dopo goccia, i suoi pensieri si fanno sempre più catastrofici. L’uomo assiste pigro e accidioso il continuo sgocciolare, pensando a un imminente annegamento dovuto al riempirsi della stanza, ma inerme rispetto una possibile azione risolutiva.

È, finalmente, al terzo racconto, che si sprigiona il patos teatrale di Celestini. È il “Piccolo Paese” a farsi protagonista del racconto. Quel piccolo paese, con un piccolo governo, con un piccolo partito, fatto di piccoli uomini tutti mafiosi, ladri, corrotti. Un giorno, durante uno dei soliti pranzi dallo Zozzone De Roma, i piccoli uomini, del piccolo partito, del piccolo governo, del piccolo paese, si domandarono cos’è che non piaceva ai piccoli cittadini, del piccolo paese, con un piccolo governo, con un piccolo partito. Decisero che, per movimentare un po’ le acque, avrebbero dovuto creare due piccoli partiti, per il piccolo governo, del piccolo paese. Si ebbe, così, il piccolo partito dei corrotti e il piccolo partito dei mafiosi. Nacque, così, la tanto acclamata democrazia dell’alternanza. Si, certo, rimase qualche differenza tra i due piccoli partiti, del piccolo governo, del piccolo paese: non a tutti piaceva andare a mangiare dallo Zozzone De Roma!

La quarta storia è una novella sul principio, sempre più attuale, del “produci, consuma, crepa!”, sviscerata come si trattasse di una historia del Decameron, dove accanto al mondo dorato e solenne dei re e dei cavalieri e della loro squallida coscienza morale, asservita brutalmente ai traffici e al denaro., si staglia la  “nobiltà umana” affatto inferiore, ma viva e ricca.

La successiva storia parla di sciopero. Del valore di un diritto duramente conquistato, svilito dalle parole di un piccolo assessore, secondo cui “nessuna categoria è fondamentale”. Se non sono fondamentali medici, professori e panettieri, figuriamoci i filosofi. Di cosa si occuperanno mai i filosofi poi? Mentre l’assessore tenta di rispondersi facendosi una grassa risata, i filosofi proclamano lo sciopero del pensiero. Questo sciopero fa arrovellare tutti che, alla fine, decidono di rivolgersi al sommo Marx per riuscire a capirci qualcosa. Marx, però, sta scioperando e insieme agli altri filosofi spiega il motivo dello sciopero. Lo sciopero del pensiero è lo sciopero contro l’alienazione, contro il brutale consumismo dell’attualità e a favore di un volere tutto, per tutti e voluto da tutti. La risposta dell’assessore è sempre la stessa “nessuna categoria è indispensabile” … Ebbene si, “Straordinario sarebbe quel paese dove i filosofi sarebbero considerati una categoria indispensabile!”.

Il satirico ritratto della piccola Italia in cui stiamo vivendo prosegue con altri incalzanti racconti del e sul nostro Paese. Paese che quando non vede più la differenza si arrabbia. Ma quando il potete reagisce il piccolo popolo ammette: “scherzavo”.

Come ha ben scritto Andrea Porcheddu “Non c’è speranza, sembra dire Celestini, di cambiare veramente le cose in questa Nazione. Lo dice con coraggio e determinazione, mettendosi in gioco in quella che è anche – e forse soprattutto – una (auto)critica intellettuale, militante ed emotiva, che tutto e tutti coinvolge. Non si salva nessuno, qua: e arriva pure a cantarlo, Ascanio, con una canzoncina lieve e ironica che mette fine allo spettacolo. Un motivetto antico, quasi alla Petrolini, che schianta ogni residuo d’ottimismo: un “inno” al bastone e alla carota, veri motori di questa Italietta sgangherata.”

La fine dello spettacolo è una osanna di applausi. Il pubblico lo ringrazia chiamandolo per nome e stringendogli la mano mentre Ascanio si va mescolando tra la folla. 

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