ROBBA SENZA PICCIULI. UNA SCHEDA DEL PASSATO OGGI DIMENTICATA

Robba senza pìccili!” Era il nomignolo con cui a Scicli lo conoscevano tutti. Venditore ambulante di panni. Girava nei vari quartieri della città col “carramatto” carico di stoffe, aghi, ditali, elastici, bottoni, fili di lana, filo di Scozia, e tutto l’occorrente per le donne, che al grido “Robba senza pìccili”, coglievano l’occasione per riversarsi sulla strada, attorniare il carro dove era esposta la mercanzia, per vedere, toccare, criticare le novità esposte sul carro e soprattutto per divertirsi a infastidire il paziente venditore.


Il “carramatto” di “Robba senza pìccili” era tirato da un asino paziente, sulla cui testa, come una spada di Dàmocle, pendeva una carota legata  a una canna. Quando, la canna veniva abbassata dal padrone, l’asino, si vedeva comparire la carota, proprio davanti agli occhi, in prossimità della sua bocca. Per questo, cominciava a camminare in avanti nella speranza di afferrare il prelibato ortaggio, che sadicamente si allontanava da lui, dondolando sempre alla stessa distanza, quasi a fargli le bizze. Quando poi, all’improvviso, la carota veniva issata, alta come una bandiera, tolta allo sguardo del quadrupede, l’asino si fermava di botto. Questa, la tecnica usata da “Robba senza pìccili”, per dare ordini al suo collaboratore.

 

E però, il signor “Robba senza pìccili”, dalle donne dei vari quartieri veniva inteso con un altro e più piccante nomignolo, quello di “Minchiazza ’i ricotta”, quasi un secondo nome di battesimo, una  seconda “nciura”, che ne definiva meglio la personalità dolce e melliflua, ma sempre accondiscendente, proprio di chi ha ormai messo da parte ogni interesse per le giovani donne, che su quel punto lo stuzzicavano pesantemente.

Eppure, malgrado continuasse a gridare al mondo che la sua mercanzia (“robba”) veniva venduta a pochi soldi (“senza pìccili”), la sua fama circolava ancora per una sua altra peculiare qualità. Difatti, “Robba senza pìccili”  riusciva ad occhi bendati a indovinare qualsiasi cosa una donna potesse mettergli sulla testa. E non sbagliava mai. L’unico limite era che per dimostrare questa sua capacità, la richiedente doveva essere una giovane e bella donna.

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E qui entra in scena la storia che sto per raccontare.

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Avrò avuto poco più di quattro anni. Mio padre in guerra. Mia madre, fotografa, abitava con sua sorella nella nostra casa-studio di Via Mormino Penna n. 48. Un giorno, io bambino, sentii mia madre e mia zia Rosina parlare di “Robba senza pìccili”, che abitava nelle vicinanze e passava tutte le mattine, percorrendo a piedi la Via Mormino Penna. Avrebbe dovuto venire nello studio per ritirare delle fotografie, e mia madre si riprometteva di mettere alla prova la sua capacità di indovino. Le foto erano pronte. Bisognava aspettare che l’ “indovino” venisse. E una bella mattina, tutti al balcone di casa aspettando che “Robba senza pìccili” passasse. Chi lo vide per primo fui proprio io. Mia zia e mia madre avvertite da me si precipitano alla porta. Dissero che le foto erano pronte. Lo invitarono ad entrare. Ora la scena è questa. “Robba senza pìccili” viene fatto accomodare nel salottino della sala d’aspetto, mia madre gli consegna le foto. Lui le commenta. Quindi mia madre gli chiede se può gentilmente fare la prova per indovinare quello che lei le avrebbe posto sulla testa. “Robba senza pìccili”  dapprima recalcitra, dice che ha fretta, poi accondiscende. Ora, mia madre tira fuori un fazzolettone con il quale gli copre gli occhi. Poi, va in cucina, prende un contenitore con della salsa di pomodoro. Ritorna alle sue spalle E pone il recipiente sopra la testa. Quindi lo esorta a indovinare. “Robba senza pìccili”  senza perdere tempo sentenziò con la sua voce rauca: “Una nappa con la sharsha”, facendo scivolare le “esse” per la mancanza di denti. Quell’evento ebbe su di me bambino un effetto incredibile. Occhi bendati. Ciotola con la salsa sulla testa. E un uomo indovina. Non credevo ai miei occhi. Osservavo, e nello stesso tempo facevo le mie considerazioni di bambino.  Adesso, mia madre, certamente stupita non meno di me, torna indietro  a prendere un cucchiaio, lo pone in alto sulla testa dell’uomo, e rifà la domanda:“E questo cos’è?” E lui, senza indugiare: “Una cucchiara è!” Adesso, mia madre vuole fare la prova del fuoco. Prende un santino di Santa Lucia. Lo pone sulla testa di “Robba senza pìccili” e lo esorta a indovinare. Qui la reazione del malcapitato, che grida: “E’ una shanta!” E subito dopo strappandosi il fazzoletto dagli occhi grida: “Shignora. Non mi faccia più questi scherzi!” Si alza e si precipita giù per le scale. Questa sua reazione non la compresi molto. Però mi fu chiaro che il santino poteva averlo disturbato per qualche motivo che allora mi sfuggiva. Non lo rividi più, il nostro venditore di panni e indovino, anche se a Scicli era diventato una istituzione e tutti parlavano di questa sua qualità. Molto tempo dopo, sentii dire che era morto. Ma, il personaggio strano, mellifluo, con i denti marci,  come anche quell’inspiegabile evento rimasero scolpiti nella mia memoria.

 

 

 

 

 

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