PERCHÉ CI PIACE IL JAZZ…

 

I musicisti si dividono in due macro-categorie: gli esecutori (la cui qualità principale è la tecnica e la capacità di lettura musicale) e i creativi (la cui qualità precipua è la capacità di maneggiare e di forzare il linguaggio in cui si esprimono).

Ora, mi sembra abbastanza riconosciuto che mentre i primi abbondano nell’area classica e contemporanea, i secondi sono invece in gran numero nel jazz.

Il punto nodale (e singolare) del nostro ragionamento è tuttavia il seguente: il jazz, dagli anni ’50 in poi, è diventato un idioma particolarmente richiestivo di una padronanza tecnica superiore (ritmi e poliritmi veloci, armonie complesse, dissonanze…) e ciò ha – a mio parere – determinato una sorta di squilibrio fra le due aree musicali. Così, mentre da un concertista classico ci si aspetta che metta la sua tecnica al servizio del rispetto per il testo (e dunque che non “crei”, almeno durante l’esecuzione di partiture non sue), da un jazzista ci si attende che crei, incessantemente, ma che faccia questo solo a condizione che metta in campo una perizia strumentale superiore.

Lo squilibrio ha implicazioni notevoli: è ormai risaputo che un musicista classico (tranne sparute eccezioni) non sappia esprimersi compiutamente nel linguaggio del jazz (gli manca quasi sempre il colore, lo swing, l’intensità) e quando ci prova il più delle volte fa un compitino diligente, mentre è sempre più acclarato il fatto che un buon jazzista, essendosi fra l’altro formato al conservatorio, possa interpretare pagine di Bach o di Mozart con risultati che possono andare dal buono all’eccellente (vedi Keith Jarrett o Chick Corea).

Nell’attuale panorama, si afferma sempre di più – peraltro – la figura del jazzista onnivoro che può tranquillamente passare, anche durante un concerto o addirittura un brano, dal registro jazzistico a quello classico a quello rock! Un nome fra tutti: Uri Cain.

Un esempio e come al solito chiuderemo: l’ultimo album di Enrico Rava per la ECM, On the Dance Floor, è un incredibile tributo alla musica di Michael Jackson (avete letto bene! Un’altra prerogativa dei jazzisti è l’apertura mentale!). Dai gorghi funkeggianti della front-line dei fiati, arrangiati da quel genio che è Mauro Ottolini, vengono fuori, sornioni prima imperiosi poi, i solo ad altissimo tasso di eccitazione emotiva dei solisti chiamati. Il tutto si srotola su un tappeto ritmico irresistibile, mobile, cangiante, che spesso prende le movenze del reggae, con batteria e basso a battere e levare e una sorta di corrente elettrica che pervade la scena acustica.

Ecco: il jazz è questo! Uno spazio scenico in cui, da un momento all’altro, una voce tirerà fuori qualcosa di imprevisto che ti farà ballare sulla sedia e ti farà rizzare i peli sul corpo!

Vi sarete chiesti certamente perché Sting, appena sciolti i Police, chiese a 4 jazzisti di accompagnarlo nei suoi dischi e nei suoi tours………..

E poi, vogliamo parlare di Bollani…..?

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