NEL CENTENARIO DELLA GRANDE GUERRA

La Grande Guerra fu dichiarata il 28 luglio del 1914 con l’apertura delle ostilità da parte dell’Austria e in meno di un mese in gran parte dell’Europa c’è guerra, cui si è aggiunto il Giappone che, il 23 agosto, la dichiara alla Germania. L’Italia entrerà nel conflitto l’anno successivo, il 23 maggio.

Poco si legge sui  libri di storia quello che fecero e dissero scrittori intellettuali e artisti.

Molti di loro furono interventisti e si adoperarono a propagandare l’entrata in guerra.

Stava per finire la Bell’Epoque e non ci si rendeva conto di quanto si abbatteva sull’Europa.

Per avere idea del clima, a parte Gabriele D’Annunzio, cui è nota l’‘esuberanza guerresca’, altri che non si sarebbe certo  pensato fossero d’accordo di entrare in guerra lo furono: il poeta tedesco Reiner Maria Rilke, lo scritttore inglese Rudiard Kipling, Anatole  France, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1921. Il russo Vladimir Majakovskij che dice: “la guerra non è uno sterminio assurdo, ma il poema dell’anima emancipata ed esaltata”. Thomas Mann si esprime in questi termini: “Come avrebbe potuto l’artista, il soldato nell’artista, non lodare Dio per la caduta di un mondo di pace di cui era così sazio, così nauseato! Guerra! Quale senso di purificazione, di liberazione, d’immane speranza ci pervase allora!”. Scrive Robert Musil: “…la guerra rappresenta l’ebrezza di un’avventura e ne avevamo abbastanza della pace”; perfino Sigmund Freud si fece prendere – anche se solo temporaneamente  – dall’entusiasmo e disse, proprio nel luglio del ’14, in una lettera ad un amico: “forse per la prima volta in trent’ anni mi sento un austriaco, e disposto a concedere a questo precario impero un’ultima possibilità”.

Gli Italiani come Umberto Saba, che si arruola volontario e non  essendo mandato al fronte se ne rammarica.

Filippo Tommaso Marinetti inneggia alla guerra come “la sola igiene del mondo”.

Per non parlare di Giovanni Papini che nel celebre articolo intitolato “Amiamo la guerra” pubblicato sulla rivista da lui stesso fondata assieme ad Ardengo Soffici, è un vero e delirante inno alla guerra.

“Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre. È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. I fratelli son sempre buoni  ad ammazzare i fratelli! I civili son pronti a tornar selvaggi; gli uomini non rinnegano le madri belve.

Siamo troppi. La guerra è un’operazione  malthusiana. C’è un di troppo di qua e un di troppo di là, che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio.

Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivono perché sono nati; che mangiano per vivere, che  lavorano per mangiare e maledicono il lavoro senza il coraggio di rifiutare la vita

Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? Ci metterei la testa che non arrivano alle dita delle mani e dei piedi messi insieme. E codesta perdita, se non fosse anche un guadagno per la memoria, sarebbe a mille doppi compensata dalle tante centinaia di migliaia di antipatici, farabutti, idioti, odiosi, sfruttatori, disutili, bestioni e disgraziati che si son levati dal mondo in maniera spiccia, nobile, eroica e forse, per chi resta, vantaggiosa.

Non si rinfaccino, a uso di perorazione, le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere. E chissà che qualcuna di quelle madri lacrimose non abbia maltrattato e maledetto il figliolo prima che i manifesti lo chiamassero al campo. Lasciamole piangere: dopo aver pianto si sta meglio.”

 

 

 

 

 

 

 

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