L’intelligenza artificiale non può sostituire lo psicologo

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Una conversazione con una chat, per quanto sofisticata, non è una forma di psicoterapia.

Oggi milioni di persone – e tra queste un numero crescente di adolescenti – cercano nei chatbot e nelle applicazioni dedicate al benessere mentale una risposta immediata: un sollievo rapido, una compagnia discreta, un orientamento emotivo di facile accesso. In un contesto caratterizzato da solitudine diffusa, da sistemi sanitari sovraccarichi e da un bisogno di cura che cresce più velocemente delle risorse disponibili, questi strumenti appaiono come la via più economica e immediata per trovare un appiglio.

Tuttavia, l’IA non è stata progettata per ascoltare nel senso clinico e umano del termine. La sua architettura nasce per generare enunciati coerenti, supportare diagnosi precoci, ottimizzare processi medici o tecnici, risolvere problemi. Non per sostenere l’impatto emotivo della sofferenza di un individuo. L’IA tende a compiacere, non a porre limiti; formula risposte, non accoglie il silenzio; organizza informazioni, ma non metabolizza il dolore. Come ricordava Winnicott, “non esiste il bambino senza la madre”: allo stesso modo, non esiste terapia senza la presenza – reale, responsiva e incarnata – del terapeuta.

Un chatbot non possiede una storia emotiva propria, né può conoscere davvero quella del soggetto che gli si affida. Non percepisce ciò che non viene detto, non coglie il linguaggio del corpo, protagonista silenzioso e imprescindibile nella stanza di terapia. L’assenza di questi elementi genera una relazione apparente, un legame simulato: un’interazione che può sembrare calda, ma che rimane priva di quella reciprocità affettiva che costituisce il fondamento del lavoro psicologico.

Per questo è essenziale imparare a distinguere ciò che può offrire un supporto limitato – talvolta utile, se ben contestualizzato – da ciò che può diventare rischioso se scambiato per un percorso terapeutico autentico. Gli strumenti digitali possono integrare, ma non sostituire, il delicato processo di cura che nasce dall’incontro umano.

Come psicologi e psicoterapeuti, siamo chiamati a mantenere uno sguardo vigile e critico su questi fenomeni, a salvaguardare la salute psicologica delle persone – e in particolare dei più giovani – e a ricordare che, nel cuore del lavoro clinico, rimane sempre l’incontro tra due soggettività reali.

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