LI ROMANI IN RUSSIA,”UNA «STORIA DI GUERRA A MILLANTA MILA MIGLIA”.

 Difficile potere scrivere di  uno spettacolo contro la guerra, mentre il giornalista alla televisione  sta parlando di guerra e di morti. C’è  come un  filo rosso che  lega sempre passato e presente, un incessante ripetersi di corsi e ricorsi in cui unica vittima è il popolo, strumento innocente  delle ambizioni dei potenti, delle loro  guerre di difesa  e di offesa che, come tutte le guerre, annullano  il confine del giusto e dell’ingiusto.

È sempre  il popolo a pagare, a fare con la propria sofferenza  la Storia  così come la fecero Gigi, Mimmo, Peppe, Nino, Nicola, Remo della  Divisione Torino, di stanza nella caserma della Cecchignola a Roma, soldati poco più che ventenni spediti  nel 1941 dal Duce a combattere la campagna di Russia, una guerra di invasione senza pretesto. Partirono  benedetti come accadeva ai tempi delle Crociate,benedetti dal prete e bagnati dalle lacrime delle madri. Ma fu una disfatta: partirono 220.000 ragazzi, ne tornarono 20.000.

 Ad essi  sabato 17 novembre  Simone Cristicchi, gavetta in mano, zaino militare e fucile in spalla, ha dato  voce in una rappresentazione che ha tenuto il pubblico  come sospeso, avvinto in  una narrazione che procedeva a quadri, dalla loro partenza, giovani inconsapevoli investiti della  missione di salvare  l’umanità dal  pericolo del comunismo, fino  alla morte nelle sterminate pianure di Russia.

 Cristicchi è solo in scena, una scena spoglia, in penombra. A sviluppare il racconto  e  segnare i cambi di quadri l’uso sapiente di luci, di chiaroscuri, di suoni e di voci fuoricampo. Il ritmo delle marce militari, gli inni alla Patria, il Duce che incita alla vittoria, la voce  dell’EIAR che esalta le imprese  dei fanti  impegnati a in difesa dell’onore della Patria e della Fede fanno da controcanto   a quanto avviene in  scena: il cammino dei soldati sotto il rumore incessante della pioggia battente, gli scontri, la fame e la sete, la trasformazione degli uomini in statue  dai mille aspetti e dalle mille forme, grottesche  sculture che segnavano il passaggio della lunga colonna in ritirata.

Era la mistificazione dei cinegiornali, ieri come oggi. 

Siamo nel 1941.  Benito Mussolini, er Capoccia, in accordo con Hitler, Baffetto, decidono l’invasione della Russia;  centinaia di soldati di fanteria  partono per «sconfiggere le truppe comuniste», per  una passeggiata, dice la propaganda, che però si trasforma subito in disfatta:  impreparati e male equipaggiati, con viveri insufficienti, stremati dal Generale Inverno, costretti dai carri armati russi ad una  disperata ritirata, abbandonati al loro destino. Tornano in patria in pochi,  tra essi Elia Marcelli  che sentirà   il dovere di raccontare, per non far dimenticare.  Sceglie la poesia per dare a questi ricordi la forma più alta E sceglie il dialetto, per costruire questa memoria con tutta la verità della lingua che si parla.

Nasce così  “Li Romani in Russia”,  uno straordinario affresco epico in ottave classiche, che Simone Cristicchi  ha magistralmente adattato per il teatro, un’opera corale che raggiunge punte di alto lirismo nella rappresentazione della  figura della madre:  le madri che salutano i figli in partenza alla stazione Tiburtina, e ancor più la madre russa la quale,  nel ricordo del proprio figlio, assiste come può i ragazzi italiani feriti, li cura, gli tiene la mano  per non lasciarli andare soli nel momento della morte.

Un grande  lavoro contro la guerra senza che la parola pace venga  pronunciata; un lavoro da presentare ai potenti, quelli delle stanze dei bottoni, quelli che giustificano le invasioni come guerre giuste o sante tanto la guerra va incontro a tutte le esigenze, anche a quelle pacifiche”. Da rappresentare soprattutto nelle scuole per i  ragazzi ormai assuefatti alle scene di violenza e di morte, in un indistinto  tra realtà e finzione, tra guerra reale e da videogame.

Cristicchi, bravissimo nel dare vita a personaggi così intensi  e così diversi,  ha sorpreso e commosso. Alla fine dello spettacolo, invitato da Andrea Burrafato,  direttore artistico dell’Associazione Santa Briganti che ha promosso  e curato l’evento, come è consuetudine per le rassegne di Teatro Aperto,  ha aperto un dialogo con il pubblico raccontando   di sé, della sua ricerca, del suo percorso.

” Filo conduttore della mia ricerca  è la memoria, come i vecchi cantastorie che andavano di paese in paese a raccontare le gesta degli eroi; qui gli eroi sono un piccolo plotone di soldati semplici della divisione Torino.  

“Mio nonno Rinaldo è andato in Russia, ma al ritorno non volle mai aprirsi al racconto, chiudendosi nel silenzio dei sopravvissuti. Ricordo però un particolare, aveva sempre freddo, un freddo dentro, nell’anima. Quando lessi il testo di Elia Marcelli, che era stato suo commilitone, trovai il vissuto di mio nonno, e da lì iniziò il mio lavoro. Un tributo a lui, a coloro che non sono tornati,  un messaggio di speranza.”

 Un monito per gli adulti, aggiungiamo noi  citando alcuni versi di  Bertolt Brecht:

“I bambini giocano alla guerra
E’ raro che giochino alla pace
perché gli adulti da sempre fanno la guerra …”

 

 

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