INAUGURATA LA MOSTRA “IL TEMPO DI GOYA” DEL MAESTRO FRANCO CILIA

Si è inaugurata sabato 29 aprile 2017, alle ore 18.00, presso Palazzo Garofalo a Ragusa la mostra di Franco Cilia Il tempo di Goya nella collezione di Sebastiano D’Avola. L’evento, organizzato dallo Studio Legale Associato D’Avola e dall’Associazione Aurea Phoenix a cura di Andrea Guastella, presenta «la collezione di dipinti di Franco Cilia che il compianto avvocato Sebastiano D’Avola raccolse nel suo studio dalla fine degli anni Settanta agli anni Novanta: un corpus di oltre quasi quaranta lavori, molti dei quali esposti in musei come il MASP di San Paolo del Brasile. Senza l’acume di Sebastiano D’Avola, queste opere si sarebbero di certo disperse per il mondo».

Dal testo in catalogo di Andrea Guastella: «per almeno un ventennio, la collezione D’Avola si accresce di una media di due Cilia per anno e i rapporti diventano insistenti: l’avvocato visita Franco nel suo laboratorio, dove Aldo, che accompagnava spesso il padre nelle sue scorribande, lo ricorda aggirarsi come stesse danzando nel suo camice imbrattato di colori, e Franco ricambia frequentando il salotto dell’avvocato, dove egli stesso tiene testa senza alcun ossequio a critici del calibro di Marcello Venturoli.

Ma era lo studio D’Avola lo spazio privilegiato delle loro relazioni. È qui, tra un “ottimo maestro” e un “esimio avvocato” – nonostante la stretta consuetudine i due si diedero sempre del lei – che Franco e Sebastiano, Michelangelo e Giulio II redivivi, progettano la nuova Cappella Sistina.

Tutte le pareti dello studio vengono infatti gradualmente ricoperte da dipinti dell’artista. L’avvocato, che trascorre la maggior parte del tempo in quel luogo, vuole tenerli sempre sotto gli occhi.

Certo la collezione Cilia che fu di Sebastiano D’Avola, oggi amorosamente custodita da Aldo nelle stesse stanze per cui fu concepita, non devia di un millimetro dall’assunto di partenza.

Un avvocato navigato sa che, dietro un volto dolce, si celano sovente i più atroci misfatti. Perciò desidera specchiarsi in quadri visti dall’interno, dove gli uomini non sono colti per come si mostrano, ma per come sono.

Ecco quindi squadernarsi una serie di Maschere, di Ombre, di figure impietrite su cui giganteggia un olio dei tardi anni Settanta che impressionò Leonardo Sciascia, un d’après della Fucilazione del 3 maggio 1808 con un “pazzariello napoletano” nel gruppo dei condannati, significativamente intitolato Omaggio a Goya. E alla Fucilazione di Goya Cilia dedica complessivamente sei pezzi, facendone la via d’accesso privilegiata alla raccolta.

Come ebbe a scrivere Gesualdo Bufalino, “Le opere d’après, così le variazioni beethoveniane su un valzer del Diabelli come i Velasquez rifatti da Picasso, spesso non sono soltanto omaggi a un artista congeniale, ma risultano letture critiche, dichiarazioni d’amor dialettico, interpellanze provocatorie, che incalzano il modello per stanarlo dalla sua invulnerabile e museificata immobilità. Così Cilia con Goya. Le cui pitture ‘nere’, tradotte in siciliano con impavida energia e disinvoltura, popolano di lemuri, maschere, mostri un cielo inaspettatamente consanguineo e compiacente. Metafore di un’antica infelicità di un fuligginoso horror mediterraneo, che non si possono guardare senza spavento né pietà”.

E tuttavia, se queste immagini ci colpiscono tanto è perché in esse Goya, e Cilia con lui, non hanno collocato i sentimenti degli uomini in una dimensione altra, facendone dei simboli, delle allegorie fantastiche, ma si sono sforzati di rivelarli nel modo più vero. Nella loro pittura, i mostri e gli uomini hanno lo stesso corpo, vivono fianco a fianco le medesime avventure: la splendida modella e la maschera o il mostro alle sue spalle sono entrambe reali. In ciò, a dispetto di quanto suggerisca tra le righe Bufalino, non c’è neanche l’ombra dell’aneddotico o del pittoresco.

Come aveva ben compreso l’avvocato, quando ci soffermiamo su Cilia non facciamo che rivivere la nostra storia personale. Si osservi, ad esempio, il Deriso: in questo grande olio dell’81 l’artista, assolutamente riconoscibile dalla camicia bianca indossata cento volte nella scena teatrale della Fucilazione e, se non fosse ancora chiaro, da un medaglione con la lettera “f” gialla su fondo verde, si ritrae col volto contratto e il labbro rigonfio, mentre due figure femminili da un lato e un generale imperturbabile sulla destra sembrano danzargli intorno come i carnefici di un Cristo alla colonna. Lo stanno deridendo, stanno cioè mettendo in discussione la sua duplice natura di uomo e di artista, che solo nella dimensione del sacrificio della Fucilazione trova la sua ragione d’essere. Il Cristo contadino del 3 maggio di Goya fissa lo sguardo nei suoi persecutori; che vittima potrà mai essere, al contrario, un individuo insicuro, insoddisfatto, che si offre indifeso allo scherno e all’irrisione?

A commentare dipinti umani troppo umani come questo, si ha la cifra, lo ha scritto Tzvetan Todorov nel suo ultimo libro su Goya, della trasformazione subita dalla pittura negli ultimi due secoli. Fatta eccezione per pochi artisti che, come Franco, possono ritenersi a giusto titolo discepoli del maestro spagnolo, “l’idea stessa di cercare nell’arte contemporanea una chiave per interpretare il nostro mondo avrebbe qualcosa di stravagante. Oggi le principali correnti dell’arte visiva non si preoccupano di formulare un’interpretazione della realtà; ancor meno, forse, di trasmettere e suscitare nello spettatore l’emozione provata dall’artista. Significato ed emozione sono considerati obiettivi inattuali, del resto l’impressionismo li aveva già sostituiti con la ricerca della sola percezione sensoriale”.

Il Franco Cilia di Sebastiano D’Avola non è mai solo un colorista o un disegnatore. Racconta una storia vera e irreale, fantastica e mostruosa come chi intenti una causa o licenzi tra le lacrime una lettera d’amore: alla donna, al creato, alla vita, con le sue mille idiosincrasie e contraddizioni.

Il tempo di Goya non è mai finito, anzi sta per cominciare».

 

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