“I TRASLOCHI DELLE PASSIONI”

 

– Nicola Colombo, come nasce il tuo ultimo libro “I traslochi delle passioni”?

Ho iniziato a scrivere questo romanzo parecchio tempo fa, precisamente nell’estate del 1994.

È stato il mio primo meditato (forse) confronto con la senilità, l’età che avanza al fare degli anni che incalzano sul tempo della vita e sulle stagioni dell’esistenza. La bozza manoscritta fu poi abbandonata alla polvere e all’oblio. E solo in rare occasioni rivangata, aggiornata, amputata o ampliata, a seconda che la vicenda reclamasse sintesi o sviluppi ulteriori. A distanza di venti anni ho deciso di rivisitare il tutto (senza stravolgerne il costrutto e la trama) e completare (se così si può dire, dato che le fatiche letterarie di fatto non si completano mai…) il romanzo.

– Di cosa parla questo nuovo romanzo?

Dell’autunno della vita. Inteso come stagione delle malinconie e dunque delle ricordanze. Tempo di trapasso, senilità di un tempo che si sfarina prima di decidersi di morire. Il tramonto esistenziale incita a far rivivere gli anni felici dell’adolescenza o quelli del forte sentire della gioventù, con le avventure che la vita riserva (così come le dure repliche della vita…), quei passaggi nelle terre di mezzo necessari per approdare alla ragione, prima, non ancora definita, vaga e oscillante, per conquistare infine (se si riesce a farlo) la costanza della ragione, ovvero l’ accettazione del senso del vivere in questo mondo. Da qui la necessità di raccontarsi a tutto tondo, senza nulla tralasciare, senza niente concedere. Raccontarsi a se stessi, in primo luogo, per capirsi. E raccontarsi agli altri, a quelli che verranno dopo, perché possano continuare a riproporre nel loro quotidiano le radici da cui provengono. Nel romanzo si alternano le fughe, gli orizzonti di sola andata, i biglietti da viaggio staccati per un viaggio senza ritorno, ai ritorni precipitosi e imprevedibili nei luoghi natii. Propriamente, si tratta di quei traslochi delle passioni che, non a caso, fanno da titolo e da cornice al romanzo.

– Qual è la trama?

L’io-narrante, superata la soglia dei sessanta anni, sente il bisogno di lasciare una traccia di sé, ai figli – nel frattempo andati via forse per sempre… – o ai nipoti, se ne verranno… Scrive un memoriale che intende essere un documento testamentario e alla cui stesura lavora per circa due lustri, un decennio di fatiche e ricordi. Le pagine sono storie di luoghi e città, gioie – invero poche – e lutti, stati d’animo cangianti, simili alle stagioni dell’anima… L’io-narrante si sofferma a descrivere i tramonti che scandiscono il suo tempo solitario, nelle sicure mura della sua casa in campagna. E rievoca i suoi anni, tra i venti e i trenta, tutt’altro che felici; gli studi interrotti e poi ripresi; il lavoro in una città lontana e fredda; l’amicizia e la delusione verso chi l’ha tradita. Le memorie di quegli anni non possono fare a meno di tornare sulle donne importanti, sia metaforicamente che realmente, con le quali ha trascorso il tempo dell’attesa dell’età importante, quella della conquistata ragione. Amori condivisi e perduti, per incomunicabilità caratteriale; amori ardentemente vissuti come iniziatica stagione di cambiamento e repentinamente persi; amori intellettualmente respirati ma fisicamente rinnegati. Donne importanti con le quali si condividono libri con dediche e autori come maestri di vita, libri stessi che divengono amati per le parole che lasciano come traccia nell’animo e che si trovano sistemati con maniacale cura nella libreria della casa solitaria… E per ogni scansione del memoriale un libro, un romanzo, un autore, che lo segneranno per tutta la vita. E poi, due figli perduti per il mondo, presi dai marosi della vita, uno (il più piccolo) che muore prematuramente in un incidente stradale, l’altro suicida come certi artisti e pittori maledetti. Infine, la dimensione della radicale scelta del solitario, della consapevolezza cioè che soffrire da soli e morire da soli è una consolazione e uno stato dell’animo, dato che sofferenza e solitudine non si intendono condividere con nessuno.

– Il libro, almeno in parte, ha dei riferimenti autobiografici?

Le parti per così dire autobiografiche rappresentano al più il margine, men che mai la cornice, della storia. Rimangono veri certi personaggi, alcuni con nomi inventati e altri no. Alcuni protagonisti anche centrali, invece, sono frutto della mia fantasia. La casa nella campagna solitaria esiste realmente, ma penso di condividere solo con me stesso, luogo e spazio in cui è ubicata: fa parte della mia costanza della ragione che necessita di essere difesa e salvaguardata giorno per giorno. Le città, specie Trieste e Firenze, sono del tutto reali e veritiere per quanto narrato negli accadimenti descritti. Se poi qualcuno si sentisse rappresentato e perciò legittimato a criticarmi per ciò che ho scritto, ci troveremmo in presenza dell’ennesimo esempio in cui l’immaginazione supera, anticipa, sostituisce (e stupisce ) la semplice, nuda e cruda realtà.

Giovanni Criscione

 

 

 

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