I “CUONZI” UTILIZZATI COME TROGOLI IN ALCUNI CASI SARANNO MAPPATI

Un tuffo nei misteri della tradizione. Vasche comunicanti, tutte rigorosamente in pietra, disposte in pendenza. Sono i “torcularia” disseminati nelle campagne iblee, accanto ai centri abitati. La vasca più alta serviva a pigiare l’uva, quella più bassa, il tino, a raccogliere il mosto. E, come se non bastasse, accanto sono stati rinvenuti dei filatteri, delle epigrafi, scongiuri a cui il proprietario del fondo ricorreva per stigmatizzare la cattiva annata. Sono alcuni degli elementi più interessanti emersi ieri sera nell’auditorium San Vincenzo Ferreri di Ragusa Ibla durante il terzo appuntamento di “Ergasterion – Fucina di archeologia”, il ciclo di incontri promosso dall’associazione SiciliAntica e che ha puntato l’attenzione, stavolta, sull’archeologia della produzione, un tema il cui interesse è di recente cresciuto rispetto al passato. Anche perché l’ambito delle produzioni tecnico-artigianali delle società antiche costituisce un ulteriore modo per capire come erano organizzate le società stesse. I lavori sono stati moderati dall’archeologa Ornella Bruno. E’ stato Giovanni Bellina, past president di SiciliAntica, ad introdurre gli elementi di uno studio in progress riguardante proprio i “torcularia” per i quali è prevista la redazione di una mappa. “In alcuni casi – ha detto – i torcularia, in siciliano “cuonzi”, sono stati utilizzati come trogoli. A volte si trovano insieme le vasche del palmento e la base della pressa. Palmenti e torchi servivano per vigne e oliveti delle campagne vicine a Ragusa”.

Di conservazione del pesce nel mondo antico ha invece parlato Annunziata Ollà, funzionario archeologo della Soprintendenza di Messina. “Ho avuto la fortuna di scavare a Milazzo – ha chiarito – in Sicilia numerosi impianti di produzione e di lavorazione del pescato ricordano gli impianti esistenti nella zona africana e in quella spagnola. Salagione, affumicatura, essiccamento le tipologie di lavorazione. La salagione è la tipologia che fornisce maggiori testimonianze. Ma non sappiamo se fosse diffusa. Resta un quesito da sciogliere: se fosse un retaggio dei fenici o dei greci”. Ollà ha poi passato in rassegna vari ritrovamenti di anfore utilizzate negli impianti di produzione nel Mediterraneo.

Delle antiche latomie costiere della provincia di Siracusa, passando in rassegna quelle esistenti dalla fine del VI secolo a.C. all’VIII secolo d.C., si è invece occupato Alessandro Rustico, specializzato in Archeologica classica all’Università di Bari. “E’ importante avere un quadro della situazione geologica della fascia costiera – ha affermato – anche perché i cavatori prima di aprire una cava ci pensavano due volte. Ci volevano delle ottime caratteristiche fisico-meccaniche”. Le tecniche di estrazione sono tre. La prima, “pointillè”, si riconosce per la presenza di fori paralleli. La separazione del blocco avveniva per pressione manuale. La seconda tecnica implicava l’utilizzo di cunei. Erano inseriti cunei metallici o in legno in degli alloggiamenti. La terza è una tecnica mista, che utilizza il piccone: si praticava un foro e con l’abbattitura per mazza si separava il blocco della vena rocciosa. Il trasporto dei blocchi avveniva, tramite imbarcazioni, dal luogo di estrazione fino al cantiere in cui si impiegavano. “Questo spiega – ha aggiunto Rustico – l’ubicazione delle latomie prossima al mare. Sulla difficoltà del trasporto dei blocchi sui carri ci parla spesso Vitruvio. Il costo degli espedienti tecnici faceva aumentare le spese per la realizzazione”.

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