CHI SONO I NOSTRI POLITICI?

A norma dell’art. 69 della Costituzione italiana, «i membri del Parlamento ricevono una indennità stabilita dalla legge»: ribaltando l’opposto principio enunciato dallo Statuto albertino, si afferma la necessità (e irrinunciabilità) dell’indennità, da intendersi strettamente collegata con l’art. 3 (principio di eguaglianza) e con l’art. 67 (divieto di mandato imperativo). Oltre all’indennità sono riconosciuti al Parlamentare numerosi benefici quali la libera circolazione sulle reti ferroviarie, stradali, marittime, eccetera.

Lo scopo della norma è evidente: garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali, di partecipare alla vita pubblica realizzando effettive condizioni di uguaglianza e di indipendenza nello svolgimento delle loro funzioni. E’ cambiata così la composizione del Parlamento italiano i cui rappresentanti, sotto la vigenza dello Statuto albertino, erano prevalentemente esponenti aristocratici o dell’alta borghesia.

Ma qual’è la composizione attuale del parlamento italiano? Lo rivela un’indagine curata da Boeri, Merlo e Prat e pubblicata dall’Università Bocconi qualche anno fa. Impietoso il paragone con gli Stati Uniti, dove i parlamentari laureati sono aumentati mentre l’età media si è mantenuta stabile. Viene analizzata la composizione dei deputati che entrano per la prima volta in Parlamento nelle quindici legislature che vanno dal 1948 al 2006.

L’età media dei nuovi eletti era di 45,8 anni nella I Legislatura, è scesa a 42,7 nella settima (1976) e ha cominciato poi a salire costantemente sino a raggiungere i 50 anni nella XV Legislatura.

Le donne sono triplicate, tra il 1948 e il 2006, passando dal 7,2 per cento al 20,8 per cento. La percentuale più bassa, l’1,7 per cento, si è registrata tra i neoeletti del 1968, con la V Legislatura. Anche il livello di istruzione è cambiato enormemente tra il 1948 e il 2006. La percentuale dei nuovi eletti con una laurea, pari al 91,4 per cento all’inizio della I Legislatura, è diminuita costantemente sino a quota 64,6 per cento dopo le elezioni del 2006. Mentre il livello di istruzione del resto dei cittadini si è enormemente elevato nello stesso periodo.

Se ci si concentra invece sulle differenze tra la Prima e la Seconda Repubblica, si nota che l’età media di ingresso è passata dai 44,7 ai 48,1 anni e la quota di donne è aumentata dall’8 al 13,9 per cento, mentre la percentuale di parlamentari laureati è scesa dall’80,5 al 68,5 per cento.

È anche interessante notare che mentre l’età media dei neoeletti è salita sia per gli uomini sia per le donne nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica (da 45 a 48,3 anni per gli uomini, da 41,1 a 46,5 anni per le donne) e la percentuale dei laureati è complessivamente più bassa nella Seconda Repubblica rispetto alla Prima (quando era dell’80,1 per cento per gli uomini e del 75,1 per cento per le donne), nello stesso periodo è tuttavia cresciuto il numero delle donne laureate (il 70,1 per cento) rispetto a quello degli uomini laureati (il 68,2 per cento).

Facendo un confronto con gli Stati Uniti, con l’eccezione delle neo parlamentari donne che mostrano nel tempo molte analogie con le colleghe italiane, gli altri indicatori rivelano forti differenze.

Negli Usa i parlamentari con una laurea (bachelor) sono aumentati dall’88,5 per cento del 1947 al 93,9 per cento del 1993, mentre l’età media del primo ingresso al Congresso si è mantenuta stabile intorno ai 47,5 anni.

Se poi si osservano da vicino le carriere dei deputati prima della loro elezione emergono alcuni aspetti interessanti. I neo parlamentari provenienti dal settore legale sono scesi costantemente dal 33,9 per cento della I Legislatura al 10,6 per cento della XV. Anche la quota di deputati provenienti dal settore agricolo è diminuita. Al contrario è aumentata la percentuale dei legislatori provenienti dal settore industriale: dal 12,4 per cento della I Legislatura al 26,3 per cento della XIV (2001-2006). E ne è cambiata la composizione: gli operai sono scesi dal 6,3 al 5 per cento, mentre i manager sono aumentati dal 6,1 al 18,2 per cento tra la I e la XV Legislatura. I neo parlamentari provenienti da una carriera politica sono passati dall’1,7 per cento al 15,2 per cento e i dipendenti pubblici dal 2,4 per cento al 6 per cento, tra la I e la XV Legislatura.

Un’altra evoluzione interessante riguarda la percentuale dei sindacalisti, più che raddoppiata (dal 5 all’11 per cento) nelle prime quattro legislature, crollata all’inizio degli anni Settanta e da allora stabile intorno al 3 per cento. È da sottolineare che il 37,3 per cento delle donne proviene dal settore dell’istruzione (tra gli uomini il 17,5 per cento), solo il 5,3 per cento dal settore legale (tra gli uomini il 20,4 per cento): le quote complessive degli uomini e delle donne che vengono dal settore industriale sono simili (19,7 per cento uomini e 17,9 per cento donne), ma la percentuale di donne impiegate, che provengono dunque da un livello più basso, è più alta di quella degli uomini (l’11,5 per cento contro l’8 per cento), mentre i manager sono più spesso uomini (l’11,6 per cento degli uomini contro il 6,5 per cento delle donne).

 

Le differenze tra uomini e donne risultano analoghe nella Prima e nella Seconda Repubblica. Alcune peculiarità del mondo del lavoro italiano, come la forte presenza dei lavoratori del settore pubblico o dei dirigenti di partito che lavorano a tempo pieno nelle varie organizzazioni politiche, rende arduo il confronto tra parlamentari italiani e americani.

Oltre ai dati sull’ultima occupazione prima dell’elezione, che riguardano 4.317 su 4.465 deputati tra il 1947 e il 2007, questo studio prende in esame anche le carriere successive al mandato parlamentare di un campione rappresentativo di 860 parlamentari (768 uomini e 92 donne). L’età media del campione è 56 anni. Il 5,6 per cento lascia il Parlamento per andare in pensione, mentre il 2,7 per cento per andare in prigione. Molti parlamentari provenienti dal settore privato rimangano in politica anche all’uscita dal Parlamento. Volendo approfondire l’aspetto delle carriere post-parlamentari abbiamo questi dati.

         Primo: il 57,4 per cento degli ex parlamentari non torna alla sua occupazione iniziale.

         Secondo: i deputati che tornano più raramente alla vecchia occupazione sono gli ex lavoratori dell’industria (4,3 per cento). Di fatto, il 17 per cento rientra nel settore ma con posizioni manageriali.

         Terzo: pochi abbandonano la politica. Molti deputati provenienti da altri settori prima di entrare in Parlamento, alla fine del mandato accettano un incarico politico: una quota che varia dal 28,1 per cento di chi prima lavorava nel settore legale, al 37,5 per cento di chi ricopriva un ruolo manageriale nel settore industriale, al 49,1 per cento di chi proveniva dal lavoro autonomo, al 54,9 per cento di chi lavorava nel settore pubblico, al 61,2 per cento degli ex impiegati nell’industria. Allo stesso tempo, chi proveniva dal mondo politico, nel 74,2 per cento dei casi ci rimane. Solo il 21 per cento sceglie il settore privato (e un rimanente 4,8 per cento va nel pubblico impiego). Di tutti gli ex parlamentari che restano in politica, il 21,5 per cento è eletto o impiegato negli enti locali (città o provincia), il 14,3 per cento nelle regioni e il 10,6 per cento a livello nazionale. Il restante 53,6 per cento accetta un incarico nel partito.

Negli Stati Uniti si osserva invece il fenomeno inverso. Gli ex parlamentari che al termine del mandato lavorano nel settore privato sono la maggioranza (59,8 per cento) contro il 40,2 per cento che accetta un altro incarico politico. Gli ex parlamentari che vanno in pensione dopo la fine del mandato sono il 13 per cento, di più di quelli italiani, anche se l’età di ritiro è la stessa (56 anni).

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