CHI SI MANGIAVA NTA MASSARIA

    Alla domanda: «chi si mangiava nta massaria?» la risposta immediata, spontanea di chiunque ha vissuto nelle masserie della campagna ragusana nel secolo scorso è: «a minestra, a sira». La minestra alla sera! Quello della sera era il pasto principale e la minestra era una minestra di fave. Sempre, ripetutamente, tutte le sante sere: minestra di fave secche. Si mettevano le fave a bollire per tempo. Se erano cucivuli (cioè di ottima qualità che cuocevano presto) si mettevano cu n’ura ri suli (con un’ora di sole, quando cioè mancava un’ora al tramonto), ma dovevano essere di qualità proprio extra, normalmente s’assittava a pignata (si sedeva la pignatta cioè si metteva sul fuoco) abbastanza prima. Un aneddoto racconta di un tale che dovendo comprare delle fave si raccomandava che fossero cucivuli, il venditore lo rassicurò con la frase «basta ca i mittiti cu n’ura ri suli». L’uomo, fiducioso, comprò le fave e, per precauzione, le mise sul fuoco con due ore di sole ma all’ora di cena erano ancora dure. Andò a protestare col venditore il quale confermò quando detto precisando che intendeva dire con un’ora di sole all’alba e non al tramonto. L’aneddoto trova senso nel fatto che le fave e soprattutto le loro scorze, spesso erano alquanto dure e il mangiar fave tutti i santi giorni non era una gran bella vita.

     Le fave costituivano, prima dell’invenzione dei mangimi industriali, anche l’alimento più sostanzioso per le vacche. Si mettevano a bagno la sera e il girono dopo se ne dava una bella gamella a ciascuna nel periodo di maggior produzione di latte.

     Si cucinava nta tannura, tre blocchi di pietra calcare a forma di U con in mezzo u tribbuolu di ferro su cui si appoggiava la pentola. Come combustibile si usava la legna o anche i zotti (le cacche che le mucche lasciavano nei campi essiccate dal sole). Erano a forma di torta e ben sode. Se ne mettevano quattro a forma di cubo: tre ai lati e una sopra; in mezzo si dava fuoco a un ciuffo di paglia e la fiamma attecchiva nello sterco secco dando un fuoco alquanto fumoso ma sufficiente per la cottura. A lato della tannura c’era u cufunettu a carbonella su cui si cucinava il sugo o la zucchina in umido o si scaldava l’acqua per il caffè. Tannura e cufunettu erano poggiati sulla tuccena, lastra di pietra orizzontale sorretta, ad altezza adeguata, da due o tre pilastri. A badare alla pentola pensava la massara (la moglie del massaro) quando era in campagna o, se c’era, qualche picciuttiedu, ragazzino o il massaro stesso.

     Le fave si mettevano con poca acqua, sufficiente a coprirle, in modo da arrivare prima a temperatura. Come coperchio si usava una bacinella con dell’acqua che si riscaldava col vapore acqueo della pignatta. Quando le fave gonfiavano si aggiungeva l’acqua della bacinella già tiepida. Abbarari o luci, badare al fuoco consisteva proprio in questo: attizzare il fuoco, aggiungere legna o zotti e l’acqua alle fave. A metà cottura si aggiungeva della verdura, se c’era: foglie di cavolo, agghiti (biete selvatiche), vurraini (borragine) e un’taffuniedu ri lardu, un rettangolino di lardo di maiale conservato sotto sale. Ma questo era esclusivamente per il massaro e la sua famiglia. Quando le fave erano cotte si tiravano fuori e costituivano u sciunnatu, un piatto per la famiglia del massaro assieme al lardo e alle verdure e un’fanguottu, una terrina, per i garzoni. Il lardo era una prelibatezza, la verdura una raffinatezza. Il primo era invidiato, la seconda no, perché, dice il proverbio, virdura, fissura e fimmina nura puotunu l’uomu alla sepoltura (verdura, fessura e femmina nuda portano l’uomo alla sepoltura). E già perché la verdura, a differenza delle fave, non ha sustanza, sostanze, proteine e la fessura si riferisce agli spifferi che entrano dalle fessure delle porte e che possono provocare una polmonite, e una volta, di polmonite, si moriva. Per la parte del proverbio relativo alla femmina nuda non occorre commento. Nel brodo delle fave si cuoceva la pasta e poi tutti a tavola alla luce della candela a olio o del lume a petrolio, oggi inconcepibile ma all’epoca pienamente sufficiente: la famiglia del massaro in una stanza in modo da potersi concedere qualche boccone particolare, quali appunto u taffuniedu ro lardu, che non poteva, per l’esiguità, essere condiviso e i garzoni nella casa abitara, il locale in cui c’era il forno, la tuccena, il focolare per cucinare la ricotta e l’angolo dove si lavorava il caciocavallo. I garzoni mangiavano prima u sciunnatu (in modo da smorzare la fame con la pietanza meno costosa) attingendo dalla stessa terrina e poi la pasta, ciascuno nella propria scodella. Fave e pasta venivano condite con olio d’oliva. Poco, perché l’olio era un lusso e qualche massara furba, approfittando della poca luce, giocava a far la generosa con dei giri a vuoto dell’oliera. Il massaro generoso dava anche un bicchiere di vino a testa. Normalmente non si faceva uso di altri legumi. Talvolta i ceci, se erano coltivati nella masseria. Le lenticchie si compravano e se ne faceva uso in città, nella famiglia del massaro. In città il pasto principale era a mezzogiorno ma sempre a base di legumi. Si mangiava prima la pasta e poi u sciunnatu col pane. Quando si faceva la pasta asciutta col sugo, di pomodori freschi quando c’erano o di strattu estratto di pomodoro essiccato al sole di luglio, c’era il problema di cosa mangiare per secondo. Si metteva qualcosa nel sugo. Quando andava bene c’era un pollastro o un coniglio o un piccione oppure si metteva un po’ di lardo o patacchi (heliantus tuberosus o topinambur) o fondi di carciofi. Così il sugo veniva più gustoso e si aveva qualcosa da mangiare per dopo. Ma spesso non c’era niente e il sugo veniva detto sucu fintu! 

     In masseria, finito di desinare, si “pizzicavano” le fave (operazione consistente nel togliere, con gli incisivi o col coltello, la parte di scorza in capo alla fava) per l’indomani sera. Dentro una bacinella si lavavano, con acqua tiepida e senza detersivi di sorta all’epoca inesistenti, pentola e scodelle; ne veniva fuori a lavatura che, con l’aggiunta di un paio di canigghiutti, pagnottelle di canigghia (crusca) costituiva la cena per i cani. I cani bevevano la lavatura e subito affondavano il naso in fondo al recipiente alla ricerca del canigghiuttu e spesso incontravano il naso del compagno e si sentiva allora ringhiare. Oggi le pasticche di crusca si comprano in farmacia!

     D’inverno faceva buio presto e le serate erano lunghe e dopo cena ci s’intratteneva per dei lavoretti quali ad esempio intrecciare la corda e fare scope. Per la corda e per le scope si usavano le foglie della chamaérops humilis o palma nana: quelle spiegate a ventaglio, i scupati, per le scope e quelle non ancora spiegate, i curini, per la corda come sequenza di curini innestati e intrecciati senza alcun nodo. C’era sempre qualcuno che, nel frattempo, raccontava i cunti racconti tramandati oralmente e spesso vere pagine di letteratura assieme a filastrocche, miniminagghi indovinelli. Poi la massara scurria u rusariu, recitava il rosario, e capitava che qualcuno si addormentava, magari lo stesso massaro e la massara lo riprendeva col detto l’arma ridu ridu e cu preja, preja pi ridu (l’anima ridu ridu – intercalare per la rima – e chi prega, prega per se stesso e chi non prega non ne avrà vantaggio). Poi tutti a nanna, il massaro con la famiglia nei letti e i garzoni nel pagliaio. Dormivano vestiti. Si toglievano solo le scarpe. Non esisteva il pigiama.

     Oltre alle fave, l’alimento fondamentale era il pane. Veniva fatto una volta la settimana, il sabato. Al pane provvedevano i singoli braccianti ché il massaro forniva solo il calapani o companatico. Solo durante la mietitura del grano si dava anche il pane.  

     L’altro pasto importante era quello della mattina, attorno alle otto. Si era cenato alle otto della sera prima, ci si era alzati alle quattro del mattino e a manciata ri matina si aveva appetito. Nel periodo invernale si mangiava la ricotta. Perché d’inverno? Perché si aveva cura di far partorire le mucche in autunno quando, con le piogge, i campi si ricoprivano d’erba che costituiva il foraggio principale e il latte e il caciocavallo venivano migliori. Ci si riempiva una bella scodella di ricotta e siero. Nel siero s’inzuppava il pane, si dava ai cani il siero eccedente e si mangiava pane e ricotta.

     Si racconta che da un cavaleri, ricco proprietario, c’era un curatulu, garzone ingaggiato ad anno addetto alla cura delle bestie e dei lavori della masseria, che aveva talmente interiorizzato il senso del risparmio da lesinare ai braccianti la ricotta del cavaleri. Una mattina i braccianti, risentiti, non aiutarono il curatulu nella mungitura delle vacche così quando il cavaleri si alzò la ricotta non era ancora pronta. «Perché siamo in ritardo?» «Perché gli uomini non mi hanno aiutato nella mungitura». Questi, interrogati dal cavaleri, risposero: «Perché idu ni fa sciarrari cu e cani!» Perché lui ci fa litigare con i cani! Metafora per indicare che nella scodella ci mette poca ricotta e molto siero destinato appunto ai cani. Il cavaleri redarguì il curatulu e assicurò i braccianti che quella mattina le scodelle le avrebbe riempite lui personalmente. Accadeva che in talune masserie dei cavaleri si stava meglio, per via della maggiore abbondanza, che in quelle dei piccoli proprietari, anche se si sono conosciuti cavaleri di paradossale spilorceria. 

     Sotto la brace del fuoco della ricotta si arrostiva la salsiccia avvolta nella carta paglia. Prelibatezza questa riservata alla famiglia del massaro e raramente ai garzoni. E già perché il maiale che si ammazzava per Natale era un lusso del massaro anche se era d’uso darne un poco anche ai garzoni adduvati a r’annu, assunti per tutto l’anno. Era una gran festa l’uccisione del maiale nonostante gli urli terrificanti di questo. Ben pulito dalle setole si lasciava a riposare per una giornata e prontamente si provvedeva a cucinare a frittura: in una grande padella si mettevano al fuoco le frattaglie affettate e nel grasso sciolto si inzuppavano fette di pane raffermo e ne mangiavano tutti, anche i garzoni. Erano una grande prelibatezza! Infatti gli antichi non sacrificavano agli dei le frattaglie?! Oggi chi le mangia più? Come usi e sapori coltivati per millenni sono caduti in disuso e dimenticati in appena trenta anni!

     Ma passato maggio e seccata l’erba cessava il latte e la ricotta. Qualche massaro faceva sfasare il parto a una mucca in modo d’avere il latte per la famiglia e per i braccianti anche nei mesi estivi. Se questo non c’era si mangiava pane con quello che c’era: cipolla e caciocavallo; ricotta salata con fave verdi; olive verdi condite con aglio, olio e aceto; olive nere saltate in padella al profumo di menta; insalata di pomodori e cipolla. Ricordo na manciata di matina con pane abbrustolito e olive nere scaldate nella cenere calda della tuccena ed anche “l’insalata arrostita”: cipolle, pomodori, peperoni e melanzane arrostiti sulla brace (le melanzane non a fette ma la polpa dopo averle messe sul fuoco intere con qualche spacco verticale) conditi con olio e peperoncino. Quando maturavano i fichi d’india, si mangiavano quelli la mattina e sempre col pane.

     Non c’era molto per accompagnare il pane e si raccomandava ai ragazzini: a picca co pani! mangiane poco companatico col pane! ché appunto era calapani doveva cioè servire a calare, a mandar giù il pane. «E cci mintisti o no quarchi ulivedha ppi cumpanaggiu? ca stu pani è sola [. . .]Lu sai ‘n mienzu a lu pani cch’è ca ti cci mettu? Ru’ purpittuli. Buonu oggi ci vai.» (E ce l’hai messa o no qualche olivetta per companatico? ché questo pane è duro come suola [. . .] Lo sai in mezzo al pane cosa ti ci metto? Due polpettine. Bene oggi ci vai!) Così il poeta Vann’Antò fa esprimere i picialuori, i minatori della pece, dell’asfalto. Racconta mastru Cammenu, ragazzino (dai sei ai dieci anni) negli anni quaranta del ventesimo secolo, che il calzolaio, presso cui era garzone, lo mandava dai massari e dai cavaleri a fare le consegne delle scarpe, nuove o riparate, il sabato e gli raccomandava: «fatti dare il pane, non ti scordare, chiedi il pane». E lui non se lo scordava e quella fetta di pane fresco andava giù che era una bellezza anche se era pani schittu (da schiettu, non accoppiato), senza calapani ché la fame è sempre stata il migliore dei condimenti. La fetta di pane era la mancia per i ragazzini ché il calzolaio, come anche il barbiere, veniva pagato ad anno e in beni: grano, olio, caciocavallo.

     Si mangiava pani, cipuda e cosicavadu: nella mano sinistra si teneva un pezzo di pane (tra mignolo e palmo), in mezzo una fetta di caciocavallo (tra anulare, medio e palmo) e tra indice e pollice una foglia di cipolla. Nella mano destra si teneva il coltello da tasca con lama a punta. S’incideva in cima la foglia di cipolla nella parte carnosa e la si liberava del velo della parte interna perché particolarmente aspro, quindi si tagliava una fetta di cipolla e un pezzetto di caciocavallo, si infilzavano con la punta del coltello e si portavano alla bocca, si completava il boccone con una fetta di pane. E c’era qualcuno che raccontava il seguente aneddoto. Ri prima matina ‘un mastru r’ascia (artigiano di mano non fine in grado di svolgere diversi lavori, prevalentemente di falegnameria), cun picciuttiedu, si ni iu nta tinuta ro Canonicu pi certi sirvizza. A manciata ri matina s’assittarru pi manciari. Nta tavula c’era pani, na testa ri cosicavadu e na beda cipuda ri Giarratana. U mastru pighia u pani, afferra a testa ro cosicavadu e si ni taglia na beda feda. U picciuttiedu, affruntusu, nu sapi chi fari, talia u mastru e stenni a manu abbota o cosicavadu. U Canonicu, ci pari piccatu tuttu stu cosicavadu ca si manciunu l’uommini, rici: «Quant’è beda a cipuda!». U picciuttiedu, timurusu, allontana a manu ro cosicavadu pi pighiari a cipuda. U mastru ci alliveda nu scuppuluni e ci rici: «Malarucatu, nun lu viri ca a cipuda ci piaci o Canonicu, lassaccilla ar’idu, tu manciti u casicavadu». Traduzione. Di mattina presto un falegname con un giovane apprendista si reca nella fattoria del Canonico per eseguire certi lavori. All’ora della mangiata mattutina si sedettero per mangiare. Nella tavola c’era pane, una testa di caciocavallo e una bella cipolla di Giarratana. Il falegname prende il pane, afferra la testa del caciocavallo e se ne taglia una bella fetta. Il ragazzetto, timido, non sa cosa fare, guarda il suo capo e stende la mano verso il caciocavallo. Il Canonico, a cui pare sprecato il caciocavallo che si mangiano gli uomini, proclama con enfasi: «Quanto è buona la cipolla!». Il ragazzo, timoroso e ingenuo, allontana la mano dal caciocavallo per prendere la cipolla. Il falegname gli somministra un ceffone e gli dice: «Maleducato, non lo vedi che la cipolla piace al Canonico, lasciagliela, tu mangiati il caciocavallo.»

     A mezzogiorno il pasto era più leggero. Troviamo le stesse cose che si mangiavano la mattina o anche  zucchine a spezzatino con qualche fetta di caciocavallo; patate a spezzatino o lessate con qualche uovo sodo; cavoli soffritti.

     Per la raccolta delle olive c’era a ciurma, tanta gente tra cutuliaturi (bacchiatori) e cughitura (raccoglitori, in genere donne e spesso le mogli dei bacchiatori) e bisognava dar loro da mangiare. Si provvedeva con le olive stesse. Si scacciavano, si mettevano a mollo in acqua, si cambiava l’acqua per tre giorni ed erano già dolci. Si mettevano quindi in salamoia con aglio schiacciato e origano. Erano molto gustose e il pane andava giù bene. La ciurma partiva di buon’ora, si portava dietro le olive e mangiava sotto gli alberi e tornava in masseria per il pranzo e talvolta solo alla sera. La giornata era lunga e la sera si cuocevano delle fave e della pasta in più in modo che taluni ne mangiassero prima di andare nei campi, all’alba, appena alzati. 

     L’aratura era un lavoro duro per gli uomini e soprattutto per le bestie, cavalle, mule e asine. Si aveva perciò cura particolare per la loro alimentazione. Il lavoro era infatti prodotto dall’energia muscolare e il cibo era la fonte di energia.

    Era duro mietere il fieno con la falce ad archetto, tutta la santa giornata con la schiena curva ché bisognava falciarlo radente al suolo ché quello che rimaneva attaccato alla terra era perso. «Sant’Agata ch’è autu u suli / fallu pi carità fallu calari / tu nun lu fari no pi lu patruni / ma fallu pi li poveri iurnatari. / Sidici uri stari a l’abbuccuni / li rini si li mangianu li cani» (Sant’Agata com’è alto il sole / fallo per carità fallo scendere / tu non lo fare no per il padrone / ma fallo per i poveri braccianti. / Sedici ore stare inchinati / i reni se li mangiano i cani, la schiena va a pezzi come mangiata dai cani), recita una canzone popolare raccolta e cantata da Rosa Balistreri. Al mietitore, oltre alla paga, spettava un fascio di fieno (necessario per il proprio asinello) e una pezza, forma di ricotta salata.

     Duro era anche mietere il grano, nel mese di giugno, sotto il sole già caldo. I mietitori indossavano un grembiule di tela pesante o di pelle e i ditali di canna per ogni dito della mano sinistra per proteggerli dalla falce ché bisognava mietere in fretta e l’antu, la squadra, andare avanti compatta. Il vitto era potenziato. Il pranzo più sostanzioso, si preparavano i causunedi o cavatiedi (pasta impastata con uova, stirata abbastanza spessa, tagliata a striscioline larghe un centimetro e lunghe da due a quattro e incavati con due e tre dita) al sugo serviti nella madia in mezzo ai campi oppure le focacce. Il pomeriggio c’era la merenda a base d’insalata o olive e formaggio. Durante la giornata si faceva passare più volte u carratiedu co vinu, la botticella da cinque litri col vino, e tutti bevevano dallo stesso buco e accompagnavano al vino i milidi, pane impastato con abbondante olio e semi di finocchietto, fatto a pagnottelle infornate e poi aperte e biscottate o i viscotta scaurati (biscotti bolliti, impastati solo con uova senza aggiunta d’acqua, olio, zucchero, semi di finocchietto, sagomati in varie forme, lessati e poi infornati) anche favi caliati, fave abbrustolite. E i mietitori innalzavano le falci al cielo e invocavano San Giovanni: Viva San Giuanni! Viava San Giuanni! Concedendosi così un attimo di respiro.

     A sera, la solita minestra di fave!

     Il sabato costituiva una felice interruzione per la dieta in quanto assieme al pane si facevano le scacce, le focacce. Si distinguono due tipi: quelle rotolate e quelle ripiene. Le prime consistono in una foglia di pasta su cui viene sparso salsa di pomodoro, fette di provola, caciocavallo grattugiato, olio e foglie di basilico, poi si piega, si rimette il condimento e si ripiega ancora fino a farne un rettangolo 15×20 centimetri circa. C’è anche la versione povera in cui il condimento è olio, prezzemolo e una spruzzatina di caciocavallo grattugiato. Le seconde consistono in un disco sottile di pasta lievitata ripiegato in due (a mezzaluna) oppure sovrapponendo un secondo disco di pasta (detto anche pastizzu o pastieri) con del contenuto da cui assumono il nome. Le più comuni sono: scaccia cu spinaci (con spinaci crudi con olive nere disossate, pomodori salati, uva sultanina e olio); cue sciuridi (con i cavolfiori crudi o leggermente lessati con olive nere, pomodori salati, uva sultanina e olio); cu agghiti e patacchi (con biete selvatiche, topinambur crudi e olio); cu a mulinciana (con melanzane fritte, cipollata con pomodori e pan grattato abbrustolito); cu ricotta e cipuda (con ricotta e cipolla); cu ricotta, cipuda e fajani (con ricotta, cipolla e fave verdi). Ce ne sono di particolari, per amatori: scaccia mulinciana e barbani (con melanzane e aggiunta di lumache sgusciate e saltate in padella); co palummiedu (palombo) o cu a raja (razza): il pesce viene prima infarinato, fritto e tolta la lisca con aggiunta di finocchietti selvatici lessati e saltati in padella con olio d’oliva o, in altra versione, di pan grattato abbrustolito. Speciali sono poi a mpanata con ripieno di agnello tagliato a pezzetti caratteristica della Pasqua e u sfuogghiu a Natale. Nto sfuogghiu è particolarissima la pasta: stesa la sfoglia si unge con strutto sciolto, si piega su se stessa facendone una striscia larga 10/15 centimetri e si arrotola facendone un cilindro che viene tagliato a metà dell’altezza, ciascuno dei due pezzi viene di nuovo steso co lasagnaturi (mattarello), su una si adagia la ricotta a fette e la salsiccia fresca liberata dal budello – gli amatori aggiungevano i frittili (ciccioli ovvero i residui delle parti grasse del maiale fusi per estrarre lo strutto) – e con l’altra si chiude il tutto. La particolarità della lavorazione della pasta fa si che diventi croccante all’esterno per le “foglioline” concentriche che si staccano e morbida all’interno.

     E la carne e il pesce si mangiavano? Si mangiavano se si poteva! Proverbiale l’aneddoto ri chidu ca cun peri ri viteda ci fici u bruoru pa famiglia, c’abbivurau a scecca e ci vagnau u carrettu (di quel tale che con un piede di vitella fece il brodo per tutta la famiglia e ne avanzò anche per l’asina e per bagnare il carretto – il carretto ed in particolare le ruote si bagnavano di modo che il legno gonfiasse e aderisse meglio ai cerchioni di ferro). Il piede di vitella fa buon brodo ed è ricco di gustosi calletti che, negli anni settanta del ventesimo secolo, ho ritrovato nei bar a Venezia e assieme ad uova sode o polpettine o polipetti lessi o baccalà fritto e altro costituivano il cicchetto con cui accompagnare l’ombra, il bicchiere di vino. Il massaro poteva e la domenica nella sua tavola c’era brodo di carne. O vitella o gallina ripiena. Il pesce, sempre per chi poteva, veniva mangiato la domenica mattina. Il massaro si alzava per tempo anche la domenica e andava in piazza San Giovanni, nta società, dove avvenivano gli incontri, le contrattazioni, gli scambi, provvedeva all’acquisto del pesce che mandava a casa col garzone o col figlio in modo da trovare per colazione, manciata ri matina, il pesce già fritto. 

     Tre dolci particolari nel senso di essere poco diffusi. A cassata ri tuma come quella di ricotta ma il contenuto è la cagliata con aggiunta, in un chilogrammo, di due cucchiai di farina, due tuorli, zucchero, scorza di limone e d’arancia grattugiate e cannella in polvere. I trizzi, le trecce consistenti in strisce di pasta (impastata con uova, acqua e un po’ di burro o strutto e di zucchero) dai bordi zigzagati, larghe due centimetri, lunghi dieci e intrecciate a tre a tre, quindi fritte in olio d’oliva e passate nel miele caldo. I cerchietti: s’impasta farina doppio zero e ricotta, l’impasto deve essere morbido ma tale da poter stendere la pasta in un tondino dal diametro di mezzo centimetro con cui fare dei cerchietti dal diametro esterno di cinque centimetri, quindi fritti e passati nel miele caldo. 

     Tre sfizi. I nturciniuna, un modo tutto particolare di cucinare le frattaglie dell’agnello specifico della città di Ragusa ma si trovano anche in Puglia e in Grecia: si taglia la retina che trattiene le viscere in rettangoli con cui avvolgere fettine di frattaglie, fegato, polmone, assieme a prezzemolo, cipolla e aglio primaverili, c’è chi ci mette anche una fetta di caciocavallo, quindi legare il tutto con gli intestini aperti trasversalmente e accuratamente lavati con acqua e limone; la tradizione li vuole cotti in tegame e qualcuno li fa alla brace. A cucucciuta arrustuta: si spenna e si pulisce l’uccellino (galerida cristata o cappellaccia o allodola cappelluta) particolare per essere molto grasso, si condisce con sale, pepe, pan grattato e prezzemolo, si avvolge in due foglie di cipolla e si seppellisce in mezzo alla brace ardente ma non molto. I barbani arrustuti: si prendono delle lumache, quelle grosse non a vaccareda, e si adagiano col guscio sulla brace ardente ma non molto; se si è così cinici da assistere alle contorsioni di sofferenza dei molluschi, se si ha lo stomaco tale da sopportare la vista della schiuma giallo verdastra emessa, se si è così crudeli da aspettarne la morte e da infilzare con uno spillo i corpi inerti, da pulirli con un tovagliolo, da condirli con olio, sale e pepe si può avere il piacere di gustare un boccone veramente sfizioso.

Ragusa, 9 aprile 2012

                                                                                               Ciccio Schembari

                                                                                                     

Articolo pubblicato sul n. 81/2012 “Di pancia” della rivista ondine www.operaincerta.it

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