ARTEMISIA

 «È proprio vero: i vecchi rimedi sono sempre i migliori!» disse Sua Eccellenza il Prefetto di Ebla dopo avere esaminato con scrupolo i fogli di carta assorbente che la signorina Artemisia, poco prima di sedersi e accavallare le gambe con furbesca lentezza, gli aveva consegnato.

La donna, mentre si grattava il ginocchio con le unghie smaltate di verde bottiglia, squarciava con gli occhi grigiastri gli svolazzi pulviscolari della penombra: indugiava ora sulla pappagorgia del Prefetto, ora sulla sudorazione barbacea, ora sul flaccido turgore delle mammelle che enfiavano la di lui camicia, ora sugli occhiali in radica di due decenni or sono, ora sui ritratti di Mussolini e Franco che troneggiavano sulla parete dietro il volto stempiato, a forma di pera, di Sua Eccellenza.

«Vede, mia cara, – riprese il Prefetto – è grazie alla Rete che oggi, per la prima volta, repubblicani e monarchici governano assieme, in perfetta armonia, ponendo fine al carnevale sindacalista e al feticismo delle manette tipico di certa stampa giustizialista. E, beninteso, alle intemperanze di qualche magistrato forcaiolo con l’uzzolo di cambiare il mondo.

Gli uni volevano la Repubblica con i Pm nominati dall’esecutivo, e noi li abbiamo accontentati; gli altri volevano il Re e la Camera dei Lord, e noi abbiamo dato loro il semipresidenzialismo e il Consiglio dei Saggi. Questo compromesso è stato accettato ovunque, tanto al centro quanto nelle periferie, eccezion fatta per il Distretto Insulare del Sud-Est. Ma ora, grazie ai servigi da lei resi alla Patria e alla Rete (Iddio gliene renda merito!), anche qui la situazione sarà a breve normalizzata e lei, mia cara Artemisia, riceverà il suo compenso: pacta sunt servanda!»

Come fosse strutturata la Rete, ai più non era dato sapere; eppure, dacché la Rete aveva smesso di sciogliere nell’acido bambini e di sventrare autostrade, era stata istituzionalizzata. Ora, se non era consigliabile immischiarsi negli affari della Rete, era comunque consentito, a differenza del passato, pronunciare il nome della Rete, riconoscere l’esistenza della Rete, sino a pochi anni prima negata, e rendere grazie alla Rete per la sua strenua lotta contro la disoccupazione giovanile: la Rete, infatti, in ottemperanza alle direttive ministeriali sulle “Strategie di Spin-off e Razionalizzazione dei Pubblici Servizi”, andava a rimpiazzare gli uffici di collocamento. 

Artemisia vendeva il suo corpo per denaro.

Slanciata, biondastra, le gambe ben tornite, i seni alti e divergenti, il volto macerato dalla cosmesi, la voce rauca; sia pure da pochi anni, non era più nel fiore della giovinezza. Riceveva gli infoiati in un bugigattolo del quartiere di Santa Maria in Vincoli; qui veniva soprannominata l’Artista, per via del suo passato da scultrice di amorini e angioletti ch’ella forgiava per le parrocchie eblaidi.

Si diceva che l’Artista, con le sue manine lisce, agili e inanellate, potesse trasformare i genitali maschili in un’opera d’arte: la peluria diventava un boschetto, il membro una fontana, che con i suoi fiotti proiettava verso i Campi Elisi gli avventori della carne. Non che costoro – di solito ciabattini, trivellatori, camionisti, ferrovieri, carpentieri, magazzinieri, allevatori di bestiame, assessori e consiglieri comunali – sapessero che cosa fossero i Campi Elisi. Eppure, con il loro eloquio strabocchevole di anacoluti e ridondanze pronominali, riuscivano a descrivere con dovizia di particolari la sapienza amplessìaca dell’Artista, incuriosendo i viandanti. Questi, se non avevano l’incomodo di mogli, madri e figlie, passavano dal bugigattolo di Artemisia, che in estate offriva loro il biancomangiare o la granita di limone. I loro coiti, peraltro, venivano secondati dal trapestio miagolante e sbuffante che una colonia di gatti – tra orge, risse e lacerazioni di uccellini – produceva sul tetto del bugigattolo.

Durante la campagna elettorale per le elezioni distrettuali del 2013, Artemisia non chiese soldi agli avventori; costoro, in cambio delle sue cosce muscolose e dei suoi orifizi, erano tenuti soltanto ad avere la residenza in un Comune del Distretto e a votare l’ingegner Pasquale Verdelli, leader della corrente Pro Patria del Partito Repubblicano, candidato alla presidenza del Distretto Insulare del Sud-Est. La corrente di Verdelli, in linea con i vertici nazionali del partito, era favorevole al compromesso monarchico-repubblicano che, a parere di molti, aveva salvato l’Italia dal baratro economico e dalla protervia delle masse; ma nel Distretto Insulare, soprattutto a Ebla, la Pro Patria era in minoranza. Era contrastata dalla Contra Factiones, che, pur condividendo le ragioni del compromesso, non poteva accettare le decisioni di una corrente di partito perché era contro l’esistenza delle correnti in seno al partito e si era costituita in corrente di partito per contrastare le pulsioni autodistruttive del partito.

In che modo gli habitué e i novizi di Artemisia avrebbero fornito le prove della loro correttezza elettorale? In primo luogo versandole una caparra, proporzionata al tipo di intrattenimento corporeo desiderato, che sarebbe stata restituita dopo le elezioni. E poi? Avrebbero usato gli smartphone nel seggio elettorale? No; sarebbe bastato un click o un crac fotografico per fare intervenire qualche rognoso tutore della legge. Meglio un vecchio sistema di epoca giolittiana: la carta assorbente. Essa, al momento del voto, sovrapposta alla scheda elettorale, avrebbe registrato fedelmente le scelte dell’elettore senza dare nell’occhio e, soprattutto, nell’orecchio. Va da sé che la copia della scheda ottenuta andava consegnata all’Artista, che altrimenti non avrebbe restituito la caparra.

Artemisia quindi, come convenuto con Sua Eccellenza il Prefetto di Ebla, fece confluire un migliaio di voti verso Pasquale Verdelli, dimodoché anche nel Distretto Insulare del Sud-Est ebbe luogo il compromesso monarchico-repubblicano, che aveva salvato l’Italia dal baratro economico e dalla protervia delle masse.

Il compenso di Artemisia? Sua Eccellenza il Prefetto di Ebla la fece assumere come cassiera nell’ipermercato più noto della città, offrendole la possibilità di una vita scevra d’impudicizie. 

Artemisia amava tanto il suo nuovo lavoro. Era una brava cassiera, molto produttiva e affabile con la gente. Si divertiva, mentre sfiorava i vari articoli con il lettore ottico, a distinguere, tra un’etichetta e l’altra, le scritte disegnate a mano, in fase progettuale, da quelle realizzate con i font informatici. Nel primo caso, all’interno di una parola, non si sarebbe trovata una sola lettera identica a un’altra: una “a”, ad esempio, sarebbe stata diversa da un’altra “a”, sia pure per un’impercettibile curvatura, coda, sbavatura o rigonfiamento; nel secondo caso, invece, all’interno di una parola, tutte le “a” sarebbero state sfacciatamente identiche.

Artemisia era una brava cassiera, molto produttiva e affabile con la gente. Aveva una sola debolezza sul posto di lavoro: quando, trascinata dal nastro trasportatore, le capitava tra le mani una confezione di detersivo o di ammorbidente, rimuoveva il tappo e ne odorava il contenuto inebriandosi. I clienti, basiti di primo acchito, finivano per sorridere a questa sua stranezza.

Artemisia era una brava cassiera, molto produttiva e affabile con la gente. Il suo lavoro e quello delle altre undici cassiere veniva attentamente monitorato dai dirigenti dell’ipermercato, che, alla fine di ogni anno, il 23 dicembre, stilavano una classifica della loro produttività e affiggevano la locandina con gli esiti nell’atrio dell’edificio. Coloro che si piazzavano nelle ultime due posizioni venivano rimpiazzate da due new entry, selezionate attraverso un provino. Artemisia si classificava sempre nelle prime posizioni; non a caso era una brava cassiera, molto produttiva e affabile con la gente. Nel 2018, però, forse si mise a odorare troppi detersivi e la sua produttività decrebbe: il 23 dicembre, infatti, si classificò solo ottava e fu, anche se bonariamente, rimproverata dai dirigenti dell’ipermercato. Artemisia era affranta; la vita tutt’a un tratto fu un insopportabile pondo, cosicché, la notte di Natale, alla fine della giornata lavorativa, la donna si nascose nell’ipermercato. Rimasta sola, s’impiccò nel reparto della cosmesi.

L’indomani i dirigenti, temendo ripercussioni per l’ipermercato e inutili perdite di tempo, non chiamarono la polizia né rimossero il cadavere penzolante; piuttosto, visto che era Natale, lo camuffarono in un angelo, bardandolo a festa con nastrini colorati, ali di legno e aureole grondanti di brillantini. I bambini apprezzarono molto quella nuova decorazione.

Dopo un paio di giorni, i resti di Artemisia cominciarono a puzzare; allora, per non dare nell’occhio (e, soprattutto, nel naso) li spostarono vicino ai banconi del pescivendolo. Quando gli afrori divennero insostenibili, di notte rimossero il cadavere e lo buttarono nella spazzatura. Ebbero cura, con un rastrello, di spingerlo in fondo al cassonetto, sotto il pesce marcio e la frutta inverminita. 

 

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