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ANGELO POLIZIANO
07 Ago 2013 15:04
Angelo Ambrogini (chiamato il Poliziano, dal nome della sua città nativa Montepulciano, in latino Mons Politianus) insieme a Luigi Pulci, Marsilio Ficino e Lorenzo de’ Medici, è un uomo che da lustro alla Firenze dell’età laurenziana, con la sua attività di umanista, filologo e grande poeta.
Egli nacque a Montepulciano il 14 luglio 1454 da Benedetto Ambrogini e Antonia Salimbeni. La famiglia era legata ai Medici, soprattutto a Piero.
Fu naturale, quindi, che anche Angelo Poliziano si mettesse sotto l’egida della potente famiglia fiorentina.
Fu allievo di Cristoforo Landino e Marsilio Ficino distinguendosi per le sue capacità e ingegno.
Negli anni giovanili (intorno al 1470) iniziò la versione in esametri latini dei libri II-IV dell’ Iliade, portata a termine nel 1475. La dedica della traduzione del libro II a Lorenzo de’ Medici gli valse l’amicizia del mecenate, che lo affiancò a sé con mansioni di cancelliere e più tardi anche come precettore dei suoi figli.
In seguito ad alcuni contrasti con Lorenzo (che non lo volle con sé nella sua missione a Napoli) e con la moglie di lui Clarice Orsini (per la sua opera di educatore), il Poliziano partì per Padova, Venezia, Verona e Mantova, dove si fermò al servizio del cardinale Francesco Gonzaga (1479-1480).
Tornato a Firenze, venne nominato professore di arte poetica e oratoria, presso lo Studio. Dedicò i suoi primi corsi alla lettura dei classici latini, in particolare di Quintiliano, Stazio e Ovidio (1480-1482), negli anni seguenti tenne lezioni sulle Bucoliche di Virgilio, sugli Idilli di Teocrito e sulle Satire di Persio e Orazio.
In questo periodo compose le Sylvae, (Selve) prolusioni latine in esametri.
Nel 1484 venne eletto papa Innocenzo VIII e, per tale avvenimento, Poliziano venne mandato a Roma come ambasciatore della Casa de’ Medici.
Nel frattempo, il poeta era diventato, grazie all’intervento di Lorenzo, prima priore secolare della chiesa di San Paolo a Firenze e, in seguito, ordinato sacerdote, canonico di Santa Maria del Fiore, il Duomo di Firenze.
Nel 1589 pubblicò a Firenze la prima centuria dei Miscellanea (Insieme di cose diverse), nella quale raccolse il meglio del suo insegnamento e dei suoi studi filologici. Nel 1490 dedicò le sue lezione all’Etica di Aristotele.
In volgare scrisse alcune rime, ma le Stanze per la giostra composte in onore di Giuliano de Medici e iniziate nel 1475, restano anche se incompiute (a causa della congiura dei Pazzi nel 1478 in cui Giuliano restò ucciso), il suo capolavoro.
Il periodo immediatamente seguente alla congiura e al soggiorno mantovano riguarda la riduzione teatrale del mito di Orfeo: La fabula di Orfeo.
Angelo Poliziano morì a Firenze nel settembre del 1494, due anni dopo Lorenzo. Poco prima di morire aveva raccolto in dodici libri le sue Epistole dedicandole a Piero de Medici. Grazie alla sua attività poetica e filologica fece di Firenze, insieme al Ficino e Lorenzo il Magnifico, il maggiore centro culturale dell’epoca.
Dagli scritti teorici del Poliziano emerge la concezione di uno stile colto ed elaborato su vari modelli, ma personalizzato al punto da risultare naturale e spontaneo. Inoltre la sua esperienza classica lo stimolò a una trasposizione in volgare di alcuni temi e motivi classici e divenne anche un sostenitore del volgare, in particolare della tradizione lirica toscana. Nelle sue rime si possono rilevare elementi di origine stilnovistica e petrarchesca, ma anche espressioni colte, accanto a quelle popolari.
Un esempio della sua scrittura tratto dalle Rime, Rispetti spicciolati, il dialogo si svolge tra la ninfa Eco (Ecco in toscano) e Pan e tutto viene giocato sulla caratteristica di Eco, che non sa ripetere che il suono finale delle parole del suo interlocutore, con effetti di ambiguità:
Eco e Pan
Che fai tu, Ecco, mentr’io ti chiamo? – Amo.
Ami tu dua o pur un solo? – Un solo.
Et io te sola e non altri amo – Altri amo.
Dunque non ami tu un solo? – Un solo.
Questo è un dirmi: Io non t’amo – Io non t’amo.
Quel che tu ami ami’l tu solo? – Solo.
Chi t’ha levata dal mio amore? – Amore.
Che fa quello a chi porti amore? – Ah more!
La ballata Ben venga maggio fu composta per essere cantata e accompagnata da musica durante le manifestazioni popolari di Calendimaggio, la festa di primavera. Il testo è certamente anteriore al 1485. Si coglie in esso una somiglianza con il componimento di Lorenzo de’ Medici Trionfo di Bacco e Arianna in quanto sono presenti accenni al tema della fugacità del tempo e in particolare della gioventù e l’invito all’amore, che la primavera favorisce. Sono però evidenti anche richiami a Guido Cavalcanti, in particolare a Fresca rosa novella.
Ben venga maggio (Dalle Rime, Ballate)
Ben venga maggio
e ‘l gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera,
che vuol l’uom s’innamori:
e voi, donzelle, a schiera
con li vostri amadori,
che di rose e di fiori,
vi fate belle il maggio,
venite alla frescura
delli verdi arbuscelli.
Ogni bella è sicura
fra tanti damigelli,
ché le fiere e gli uccelli
ardon d’amore il maggio.
Chi è giovane e bella
deh non sie punto acerba,
ché non si rinnovella
l’età come fa l’erba;
nessuna stia superba
all’amadore il maggio
Ciascuna balli e canti
di questa schiera nostra.
Ecco che i dolci amanti
van per voi, belle, in giostra:
qual dura a lor si mostra
farà sfiorire il maggio.
Per prender le donzelle
si son gli amanti armati.
Arrendetevi, belle,
a’ vostri innamorati,
rendete e cuor furati,
non fate guerra il maggio.
Chi l’altrui core invola
ad altrui doni el core.
Ma chi è quel che vola?
è l’angiolel d’amore,
che viene a fare onore
con voi, donzelle, a maggio.
Amor ne vien ridendo
con rose e gigli in testa,
e vien di voi caendo.
Fategli, o belle, festa.
Qual sarà la più presta
a dargli e’ fior del maggio?
“Ben venga il peregrino.”
“Amor, che ne comandi?”.
“Che al suo amante il crino
ogni bella ingrillandi,
ché gli zitelli e grandi s’innamoran di maggio.”
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