Mentre l’azienda sanitaria continua a rivendicare risultati positivi nella riduzione delle liste d’attesa, sul territorio emergono episodi che sollevano interrogativi sulla reale efficacia del sistema. A portare all’attenzione pubblica una vicenda emblematica è il Comitato Civico Articolo 32, che segnala quanto accaduto nei giorni scorsi a un paziente dell’ospedale di Modica. «La mattina del 16 […]
ALLA RI-SCOPERTA DI ALESSANDRO MANZONI
13 Ott 2014 10:16
Ieri un congiunto ha avuto un incidente. Non grave per fortuna, ma da richiedere il ricovero ospedaliero. Sono andata a trovarlo e la conversazione è spaziata sulla letteratura, tra vari autori italiani e stranieri, ma in particolare sul Manzoni, da qui l’idea dell’articolo.
Qualche dato biografico: Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 da Giulia Beccaria, (figlia del celebre Cesare, filosofo ed economista e autore del del trattato Dei delitti e delle pene) e da Pietro Manzoni conte di origine del comasco.
Il matrimonio, data la differenza di età, non fu fortunato e una tradizione abbastanza consolidata vorrebbe Alessandro figlio di Giovanni Verri, il minore dei fratelli Verri che furono grandi illuministi. Cosicché Manzoni trascorre l’infanzia a balia nel lecchese (fino a sei anni) per poi entrare nei collegi dei padri Somaschi, all’inizio a Merate, in Brianza e quindi (1796) a Lugano.
Sancita legalmente la separazione dei genitori, Giulia nel frattempo si è unita a Carlo Imbonati (che era il giovane cui Giuseppe Parini, che ne era il precettore, aveva composto nel 1764 l’ode L’educazione) Manzoni si è recato prima in Inghilterra e in seguito stabilmente a Parigi.
Nel prolungato periodo trascorso in collegio, contrassegnato da severità eccessiva e grande arretratezza educativa Alessandro compie i primi tentativi di versi e di traduzioni, segnalandosi come spirito indipendente e irrequieto.
Nel 1798 passa a studiare presso i padri Barnabiti di Milano (dalla nobiltà milanese), potendo quindi recarsi di frequente alla casa paterna, dove ha modo di conoscere Vincenzo Monti, che lo seguirà con affetto nella sua preparazione letteraria. Terminato il collegio frequenta probabilmente l’Università di Pavia e stabilisce amicizie con i migliori intellettuali dell’epoca: Ermes Visconti, Francesco Lomonaco, Vincenzo Cuoco, Ugo Foscolo. Trascorre intanto una giovinezza abbastanza spensierata. Intanto produce opere poetiche.
Una svolta biografica decisiva si ha nel luglio del 1805, quando dopo la morte di Imbonati Manzoni va dalla madre a Parigi e lì stampa il carme La morte di Carlo Imbonati.
Uscito da una sofferta situazione di disgregazione affettiva e intellettuale riscopre il profondo affetto per la madre.
Nel 1807 muore il padre Pietro e l’anno successivo sposa con rito calvinista Enrichetta Blondel e riscopre la religiosità e, nel 1810, si risposa con rito cattolico ed Enrichetta abiura il calvinismo. L’approfondimento religioso prosegue anche al rientro in Lombardia. Questo si rifletterà anche sulla produzione letteraria del Manzoni che sarà molto ampia e proficua.
Mi soffermo in particolare sulla sua opera più famosa e letta: I Promessi Sposi.
Nel settembre del 1823 termina la prima stesura, il cui titolo era: Fermo e Lucia, più consistente di quella definitiva. Alla fine cambia, anche in parte nella sostanza con la celebre ‘risciacquatura in Arno’. Questa revisione impegna moltissimo l’autore, fino alla seconda e definitiva edizione del 1840.
Le descrizioni che Manzoni fa sono così ben congegnate e ben definite da creare l’immagine. Prendiamo l’incipit.
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.
Pare di vedere il paesaggio dove viene collocato il romanzo, prosegue per parecchio, sempre descrivendo in modo chiaro e ‘visivo’.
Oppure prendiamo don Abbondio il prete che viene intercettato dai due bravi.
Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero.
Si potrebbero citare un’infinità di esempi, ma vorrei metterne un ultimo, dal capitolo XXXIII, dove descrive l’orto incolto di Renzo, rimasto lontano per ben due inverni…
Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di piú rilevate e vistose, non però migliori, almeno la piú parte: l’uva turca, piú alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, piú su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un piú saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giú, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.
.
© Riproduzione riservata