AL CINEMA

Anche il cinema? Anche il cinema dunque non si sottrae alla tirannia della sciocchezzeria, come comparto fondamentale dell’animo umano? Purtroppo, dobbiamo affermarlo recisamente, almeno se puntiamo un aspetto dell’esperienza che corrisponde al capitolo devastante del “parliamone”, che sopraggiunge inevitabile alla fine di ogni proiezione.

Qui sembra che viaggiamo in direzione opposta a quanto finora predicato: cosa può mai esserci di più socializzante, di più “accomunante” del “parlarne”, del parlarne con, che viene imperiosamente proposto appena usciti dalla sala?

La semiologia delle sciocchezze ci viene in soccorso e ci impedisce di prendere una cantonata, guardando con attenzione all’equivoco che si cela dietro le quinte del rituale della discussione post-cinematografica.

Guardiamo alle cose nella loro essenza: un film è un’opera d’arte, è un lavoro artistico; la peculiarità del testo estetico essendo la sua proverbiale apertura, la sua lettura  è tale da richiedere un tempo di latenza indispensabile alla sedimentazione dei suoi contenuti, che si compongono in una sintassi non immediatamente condivisibile. Ciò che – in altre parole – necessita è la metabolizzazione dell’esperienza emozionale dell’autore, attraverso il suo linguaggio, all’interno dell’organismo emozionale dello spettatore.

Ciò prende tempo, esige tempo. Un tempo che può essere funestato da vissuti spiacevoli, da un senso dell’attesa che può essere persino frustrante, mancando per un po’ la risposta ad una domanda aperta. Un tempo che si può non essere in grado di tollerare,  mettendo in campo una strategia di evacuazione dell’incompiuto, dell’incompleto, una sorta di vomito intellettuale che investe inevitabilmente il bisogno di discrezione che avvertiamo appena consumata la visione di un film, fosse anche il più irriducibile dei blockbuster.

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