ATROCI STORIE DI IMMIGRAZIONE (CLANDESTINA)

Molti parlano di immigrazione, rifugiati politici, persone richiedenti asilo politico. Si molti ne parlano. Ne parlano e basta. Ma avete toccato con mano questa realtà? Avete vissuto con queste persone notte e giorno come gli educatori e operatori della Comunità Dike di Vittoria? Credo proprio di no.

L’accoglienza è sicuramente un importante passo umano ed istituzionale ma chi vive quotidianamente la realtà di un minore straniero non accompagnato o di un rifugiato politico è consapevole non solo dell’apprendimento di una cultura diversa che senza ombra di dubbio è una risorsa ma avverte dentro di sé un tentativo di approccio delicatissimo, sereno: un sorriso della mediatrice che incontra lo sguardo smarrito della disperazione, della paura, dell’angoscia di chi non sa cosa gli aspetta e si interroga ponendosi la domanda: “ma questa donna bianca cosa vorrà mai da me?”

Le prime notti passate assieme ai minori stranieri del Ghana e del Gambia sono state le più delicate. Passai la prima sera (andai a dormire intorno alle 4,00 circa e mi alzai alle 7,30 per preparare la colazione delle 9,00…) a leggere le loro schede dopo lo sbarco a Lampedusa: tre lunghissimi giorni rinchiusi nelle stive a soffrire di fame, freddo, paura.  Storie di vite diverse ma unite da un unico destino: la costrizione a crescere immediatamente, orfani di guerra, vittime di violenza, vittime della violazione dei diritti umani caratteristica ricorrente e di una certa intensità con una ferocia allarmanti, dando luogo ad autentici crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Ho letto storie raccapriccianti: Saddik figlio di una prostituta ritrovata da lui morta nel letto condiviso da entrambi. Ora va a scuola e gioca nella squadra di calcio di Scoglitti. Sta facendo carriera. E’ un bravissimo attaccante. Alhagie dal vissuto simile a quello di Cenerentola: orfano di madre e poi di padre, vive con la matrigna e le sorellastre che lo maltrattano, scappa e lo soccorre un vicino ma muore anche quest’ultimo durante la guerra civile. La mattina del suo diciottesimo compleanno mi disse in inglese: “Stanotte non ho chiuso ho pensato alla mia mamma e ho pianto tutta la notte”. Mi sono sentita inutile e l’unica cosa che ho fatto in quella circostanza è stata quella di abbracciarlo. Smith non ha mai conosciuto la madre e il suo unico punto di riferimento il padre ucciso davanti ai suoi occhi durante un agguato. I primi giorni con lui sono stati intensi perché si puniva colpendosi quasi a rendersi responsabile delle proprie disgrazie. Diceva di sentirsi male ma in realtà era ipocondriaco. E’ uno studioso e il suo sogno è laurearsi in informatica.  Hamin figlio di un sindaco del paese in cui vive scappa per non subire le persecuzioni politiche. E’ bravissimo, studioso, lavoratore e molto educato.

Potrei elencarli tutti i ragazzi della comunità Dike ma posso dire soprattutto che sono tutti educati, sorridenti e perderli sarebbe una sofferenza reciproca.

Il centro di accoglienza è una struttura per minori a cui è stata negata l’infanzia, la pre-adolescenza e l’adolescenza e che sono stati privati dei più elementari diritti (alimentazione, istruzione, cure sanitarie). Questi ragazzi hanno vissuto in situazioni di forte disagio; adolescenti che hanno alle loro spalle nuclei familiari ai margini del tessuto economico-sociale. Vittime di violenza delle guerre civili si ritrovano senza gli affetti più cari (i genitori, appunto). La comunità accoglie minori dai 14 ai 17 anni (anche se ben 4 dei nostri ragazzi sono maggiorenni e non vorrebbero lasciarci!) assicurando vitto, alloggio, la frequentazione scolastica e l’assistenza sanitaria, gli ospiti attualmente presenti sono nove.  Sostenendo questa infanzia abbandonata e sofferente si tenta di evitare che questi ragazzi finiscano per mendicare o da soli cercare di assicurarsi i pasti (forse elemosinando o rovistando nelle immondizie). Questi ragazzi hanno dormito ammassati su qualche materasso condiviso con altri, senza acqua ne servizi igienici, vittime di malattie e maltrattamenti. Il centro provvede nel garantirgli adeguatamente tutti i pasti, un tetto per dormire, cambiare i logori abiti, prendersi cura di tutte quelle patologie che la vita di strada comporta: funghi, malattia della pelle derivanti dalla cattiva alimentazione e dalla sporcizia in cui hanno vissuto, febbre, ascessi e conseguentemente la malaria. Il sostegno permette la scolarizzazione a loro che non hanno un nucleo familiare, provvede nell’aiuto alimentare, l’iscrizione scolastica ed il materiale didattico oltre ai corsi di recupero all’interno del centro con gli educatori e con l’equipe psico-pedagogica e di mediazione linguistico-culturale.

Oggi la Comunità DIKE chiude perché il Ministero degli Interni e il Comune non hanno erogato le somme per garantire il servizio. Alcuni dei ragazzi sono già stati trasferiti. La famiglia DIKE si sta riducendo, fino a dissolversi del tutto. Noi eravamo una bella famiglia e non esiste frase più bella al mondo che sentirsi dire: “Grazie mamma” anche se non lo sei.

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