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Lo sport divide le persone in buone o cattive e non solo in vincenti o perdenti
10 Ago 2024 08:23
Al netto delle polemiche sull’organizzazione, delle false notizie, della politica che ancora una volta ha invaso un campo dal quale invece dovrebbe stare lontana, del tifo e del conseguente rammarico su alcuni risultati – tanto alla fine vince sempre e solo uno/a – le Olimpiadi ci ricordano ogni quattro anni che lo sport agonistico è quella parte della vita dove il talento e il sacrificio vanno a braccetto. Anche le tantissime storie intrecciate fra le varie discipline hanno dunque a che fare con miserie e nobiltà dell’animo umano. E’ stato e sarà sempre così.
Pensiamo a Psaumida (Pasaumis) di Kamarina, il primo atleta inconsapevolmente ibleo, vincitore di tre gare dei giochi di Olimpia nel 452 avanti Cristo: la corsa con la quadriga, col carro da mule e la gara del corsiero. Alla vigilia degli ottantaduesimi giochi, Psaumida s’imbarcò su un piccolo veliero di legno partito dalla natìa colonia siracusana sul fiume Ippari, attraversò mezzo Mediterraneo e raggiunse dopo alcune settimane di viaggio Olimpia, la città greca in cui già dal 776 a. C. si svolgevano le gare dedicate a Zeus, capo degli dei.
Un viaggetto non da poco, perché specialmente a quei tempi gli imprevisti erano sempre in agguato e non ci riferiamo soltanto alle condizioni meteorologiche in un’epoca senza le previsioni di cui oggi godiamo.
Gli atleti giungevano a Olimpia da tutti i territori della Grecia grazie all’ekecheirìa, la tregua sacra emanata qualche mese prima del grande evento, perché è noto che le città-stato erano quasi sempre in guerra tra loro. Di recente, l’enciclopedia Treccani ha sostenuto che l’ekecheirìa fosse un lasciapassare per gli atleti e che le guerre, in realtà, continuavano. Come oggi, né più né meno: in questo senso, non ci siamo evoluti.
Quanti rischi, dunque, per Psaumida, il quale al ritorno godette della gloria ovunque andasse, lodato dal poeta Pindaro addirittura in due delle sue quattordici “Olimpiche”.
Tornando invece all’evento di Parigi, che terminerà domani, non sappiamo quale sia il futuro che attende Ri Jong Sik e Kim Kum Yong, coppia nordcoreana vincitrice a sorpresa della medaglia d’argento nel torneo misto di ping pong, al ritorno in patria. Subito dopo la premiazione, Ri Jong ha preso l’iniziativa di scattare il selfie che comprendeva lui e gli altri atleti sul podio: i cinesi medaglia d’oro Wang Chuqin e Sun Yingsha – e fin qui, nulla di male – e Jonghoon Lim e Yubin Shin, terzi, quest’ultimi sud coreani. Ri Jong ha scattato il “victory selfie”, introdotto nei Giochi parigini perché i telefoni personali non sono stati ammessi sui campi di gare, a metà tra foto storica e trovata commerciale, in quanto la marca dello smartphone in questione è di un partner dei Giochi. L’episodio di atleti del Nord e del Sud Corea nella stessa foto è stato salutato con estremo favore nel mondo, perché i due Paesi sono di fatto in guerra permanente. Occorrerà capire cosa ne pensi Kim Jong-un, il dittatore della Nord Corea, lo stesso che qualche mese fa ha mandato a morte un giovane perché accusato di ascoltare musica sud coreana. A Ri Jong Sik e Kim Kum Yong, 24 anni il primo, 22 l’altra, è stato proibito di parlare con la stampa, costantemente accompagnati da guardie del corpo mandate per vigilare e impedire interazioni tra i propri atleti e il resto del mondo. Di tutto questo, ovviamente, i nord coreani non sanno nulla, forse neanche del secondo posto dei connazionali. Sopra il 38esimo parallelo, le notizie sulle Olimpiadi sono filtrate e date generalmente con settimane di ritardo. Forse tra quattro anni sapremo se nel frattempo la coppia di pongisti sarà stata risparmiata da eventuali punizioni.
Quando ci sono dittatori di mezzo, lo sport diventa mezzo di propaganda e sulla comunicazione di parte si rischia perfino la morte nelle competizioni che contano. Ne sapeva qualcosa Joseph Mwepu Ilunga, centrocampista dello Zaire, così come il dittatore Mobutu Sese Seko aveva imposto di chiamare l’attuale Repubblica democratica del Congo nel 1971, sei anni dopo il colpo di Stato con il quale aveva preso il potere. Lo Zaire era riuscito a qualificarsi ai Mondiali di calcio del 1974 in Germania Ovest. Come premio per la qualificazione (prima e ultima, al momento), Mobutu regalò ogni proprio calciatore un’auto e un appartamento, in più promise 45mila dollari in contanti a testa. Ma dopo la prima partita, persa 2-0 contro la Scozia, Sese Seko informò i calciatori che non avrebbero avuto, al rientro in Patria, il compenso in denaro. Per protesta i calciatori africani, denominati dal loro leader “leopardi” con toni fin troppo trionfalistici, si ammutinarono, perdendo di proposito la seconda gara contro la Jugoslavia. Finì 9-0 per i balcanici, dopo che verso il 20’ del primo tempo, già sul 3-0, con una telefonata a un dirigente in tribuna, il dittatore aveva imposto al tecnico Blagoja Vidinic (per giunta jugoslavo) la sostituzione del portiere titolare con un altro che non arrivava a 1,70. Dopo la figuraccia, Mobutu Sese Seko volò in Germania e intimò alla squadra di non incassare più di tre gol nella terza e ultima partita, altrimenti avrebbe fatto uccidere i calciatori e le loro famiglie rimaste a casa. E l’avversario stavolta era il Brasile.
All’85’ si era sul 3-0 per i verdeoro e una punizione dal limite affidata allo specialista Rivelino faceva prevedere la quarta rete. Ma prima del fischio dell’arbitro, Mwepu Illunga si fiondò sul pallone e lo calciò lontano, finendo per essere ammonito. Chi era davanti alla tv, ne rise pure, paventando la scarsa conoscenza degli zairesi sulle regole del calcio. “Per tanto tempo, in effetti, complice la riproposizione di quelle immagini a ‘Mai dire goal’ della Gialappa’s Band, abbiamo interpretato l’episodio come qualcosa di bizzarro, con un taglio ridicolo” scrisse l’edizione on line del Guerin Sportivo. La punizione, poi ribattuta, finì sulla barriera, la partita terminò 3-0 e gli zairesi salvarono le loro vite. Joseph Mwepu Illunga ha rivelato il significato di quel suo gesto soltanto nel 2002, dopo ventotto anni di derisioni. Quel calcione a gioco fermo gli ha allungato la vita di 41 anni: è morto nel 2015.
Tempo fa, in un discorso ai giovani il tecnico della Nazionale italiana di volley femminile e filosofo Julio Velasco disse: “Voi dovete cercare di vincere il più possibile, ma non credete a chi dice che il mondo si divide in vincenti e perdenti. Io credo che il mondo si divida soprattutto tra brave e cattive persone. Poi tra le cattive persone ci sono anche dei vincenti, purtroppo. E tra le brave persone ci sono, purtroppo, anche dei perdenti.”
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