L’astinenza da social nel lunedì ragusano

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola.
“Houston …! Qui Ragusa.”

Profili d’improvviso solitari, bacheche nel deserto, foto e link surgelati, polemiche trafitte nel silenzio, interi gruppi disarcionati (come comitive sgretolate, senza neppure il perché di una lite).
Alzi un tag chi di noi non si è sentito smarrito almeno per un attimo!
Lunedì scorso, appena tre giorni fa, intorno alle 17.45, anche la provincia di Ragusa è stata selezionata (?) per un memorabile esperimento sociale volto a rispondere a un interrogativo cruciale: come reagiscono gli esseri umani del sud-est di un’isola ridente all’oscuramento prolungato (ben sette ore) dei social più diffusi?

Facebook, Instagram, WhatsApp. Tutti e tre in down. Non pervenuti. Come se non esistessero. In una specie di lockdown digitale senza DPCM.
Dopo una ricerca personale compulsiva di segnale, ci siamo rassegnati all’evidenza di un blocco dall’alto del sistema. E lì i titoli d’esordio di un film post-apocalittico e distopico sulla scomparsa del globo digitale conosciuto.
Il black out sembrava il solito intermezzo tra un tempo e un altro, destinato a durare mezz’oretta al massimo. E invece, astinenza prolungata fuit.
Avrebbe già causato un danno all’economia mondiale di oltre un miliardo di dollari.

Ma la domanda che mi pongo in questa sede è un’altra: il danno alla psicologia collettiva a quanti miliardi di neuroni ammonta?
La colpa non sarebbe degli hacker, né dei capricci dell’algoritmo, ovvero quel fantasma dell’opera che alita da anni sui nostri passi (nel palco virtuale della nostra nuova esistenza da diversamente millenials).
Le scuse dell’azienda ci bastano? Zuckerberg non ha concesso ufficialmente nessuna spiegazione. E anche quando, sarebbe quella completa? E comunque noi saremmo in grado di capirla? Ci rendiamo conto che le nostre vite e le nostre relazioni rischiano di essere appese a un filo imperscrutabile e misterioso: il “reindirizzamento a seguito di un aggiornamento”.

Soddisfatti? Io non saprei. L’astinenza da social è come un abito da sera che ognuno veste in modo personale, in linea con lo stile e con la taglia che caratterizza le forme e le grazie individuali.
Anche nel ragusano, quale testimone sul campo, ho registrato infatti un arcobaleno di risposte policrome, che riassumo in tre reazioni basiche:
1) l’effetto “Spa”: una sorta di sollievo e di senso di liberazione nell’esperienza del Se reale ritrovato (una sorta di pausa-sigaretta anche per non fumatori);
2) l’effetto “e allora?”: il sospetto della irrilevanza sostanziale della cosa nella sopravvivenza del soggetto in esame;
3) l’effetto “mio dio” (laddove proprio il web coincide con la ansiogena divinità): il ricorso compulsivo tipico della dipendenza nella forma di stress, irrequietezza e angoscia latente di interconnessione mancata e di notifica negata.
Ma nelle infinite costellazioni dei vissuti, ancora una volta i giovani hanno mostrato reattività e brillantezza e fluidità, ripiegando astutamente su Telegram (mentre i più freschi tra i matusa abbiamo riscoperto d’incanto i nostri amati e già anzitempo cremati sms).

E tuttavia, infine, lo scherzo di Zuckerberg forse ci ha concesso inopinatamente l’opportunità di spettinare le liturgie e scegliere la sana visita ad un amico scelto o l’improvvisazione di una telefonata (col telefono fisso). E la possibilità di ricordare o imparare nuovamente che spesso vale la pena sostituire il cyber umore con uno stato d’animo che emani ancora una fragranza di meravigliosamente archeologico.

Cesare Ammendola

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