Fra storia e ricordi…la Sicilia e il teatro

Di Salvatore Battaglia

U teatru nun è autru ca u rispiratu sfuorzu ri l’uomminu ri rari nu siensu a sta vita…

 “L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita”. J.W Göthe

La Sicilia, si sa, è costellata di luoghi magici, seppur nella loro semplicità. E così, passeggiando lungo l’entroterra o in prossimità del mare vi potrebbe capitare di imbattervi in un teatro in pietra con il cielo come soffitto ed i monti o colline come pareti. Per molti secoli, prima che il cinema e la televisione entrassero a far parte della vita d’ogni uomo, il teatro era l’unica forma di spettacolo capace sia di divertire gli spettatori, sia di rappresentare i problemi e i sentimenti dell’animo umano.

Le prime rappresentazioni videro la luce nei teatri all’aperto dell’antica Grecia, dove ben tre tragedie e una commedia si susseguivano nell’arco di una giornata davanti ad un pubblico sempre numeroso ed attento; Così pure in Sicilia, parte della “Magna Grecia”, i greci fondarono insieme alle città anche dei teatri degni per bellezza e posizione a quelli della madre patria.

Il Teatro greco nell’Isola ai tempi della “Magna Grecia”

Piccola o grande che fosse ogni città greca della Sicilia aveva un teatro, in pietra, scavato nella roccia e rivolto al mare: erano molti di più di quelli che si possono ammirare oggi. Noi abbiamo scelto i più belli, integri e attivi e soprattutto d’estate ci fanno emozionare con i grandi classici, i miti, la poesia. Oggi come 2500 anni fa.

Goethe durante il celebre viaggio in Italia annotava sul taccuino che “senza la Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia: qui soltanto è la chiave di tutto”. Noi potremmo dire che vedendo la Sicilia possiamo avere un assaggio di ciò che fu la Grecia antica.

La Sicilia è stata un crocevia delle civiltà mediterranee, tra cui i Greci, che quando fondavano una città ci costruivano anche un teatro in pietra. Andare a teatro per loro era un’attività fondamentale per la vita, come partecipare a un rito sacro. Ancora oggi alcuni di questi luoghi rivivono, regalandoci ore indimenticabili alla luce del tramonto, con rassegne teatrali ed eventi che sfruttano la suggestione delle architetture elleniche, scavate nelle rocce come conchiglie che si aprono di fronte al mare. Ne citiamo solo sei.

Il primo teatro in Sicilia, il più famoso è quello di Siracusa, seguono quelli di Taormina, Segesta, Catania, Tindari ed Eraclea Minoa. Alle rappresentazioni partecipava tutto il popolo, pagando un biglietto d’ingresso d’entità modesta; gli spettatori prendevano posto sulle gradinate durante le ore del giorno (mai della notte) venivano rappresentate ogni volta opere di due autori, tra i quali il pubblico sceglieva il vincitore che veniva solennemente proclamato. Gli spettacoli erano allestiti a spese dello stato e dei cittadini più ricchi; venivano rappresentate opere scritte da grandi poeti: i più famosi sono Eschilo, Sofocle ed Euripide, che scrissero tragedie, e Aristofane, che scrisse commedie. Gli argomenti delle opere erano molto seri: prendevano le mosse dal materiale della tradizione mitica ed epica, e avevano lo scopo di proporre argomenti di riflessione e di maturazione dell’animo.

119 ANNI FA’ NASCE LA FANTASTICA STORIA DEL TEATRO SICILIANO

Nell’anno del Signore 1902, al Teatro Argentina di Roma, nelle ore serali, viene scritta la prima pagina di una bellissima favola siciliana che per molti anni farà parlare il mondo intero: un manipolo di attori poveri e analfabeti provenienti dalla lontana Sicilia, parte orientale, Catania per la precisione, da quella sera, farà impazzire il pubblico nazionale e internazionale recitando in siciliano le opere dei grandi commediografi e drammaturghi dell’epoca, Verga e Capuana fra tutti, ma anche Alessio Di Giovanni, Pier Maria Rosso di San Secondo, Gabriele D’Annunzio, Angel Guimerà e decine di altri.

Adesso chiudete gli occhi e immaginate Catania fra l’Ottocento e il Novecento, il centro storico con le basole di pietra lavica levigata dalle suole delle scarpe e dalle ruote dei carretti e delle carrozze, gli odori della pescheria, i venditori di frutta e verdura dell’Etna, l’acqua di Paternò “frisca e annivata”, le botteghe dei tappezzieri, dei ciabattini, e dei falegnami.

Immaginate una grande piazza come quella dell’Università, al centro della quale è ubicato il palazzo del marchese Antonino di San Giuliano, senatore del Regno d’Italia, il quale in un magazzino che ha ingresso laterale in via Ogninella, ospita la famiglia Grasso che in quei locali angusti – da essa stessa denominati Teatro Machiavelli – rappresenta ogni sera l’Opera dei pupi.

Lì don Angelo Grasso, rinomato marionettista proveniente da Acireale, che aveva appreso l’arte dei pupi dal padre Giovanni e costui dal padre, fino alla notte dei tempi, ogni sera porta sulle scene le gesta di Orlando e Rinaldo, Angelica e Medoro, Carlo Magno e Gano di Magonza.

Il prezzo del biglietto in questi teatri è di pochi centesimi. All’interno – secondo la descrizione di Enzo e Sarah Zappulla Muscarà – c’è il venditore di acqua e” zammù, di calia e simenza” e i cosiddetti “sunatura orvi cicati”.

All’ingresso c’è sempre donna Ciccia Grasso, la madre di Giovanni. Secondo la descrizione di Nino Martoglio, se ne sta sempre “imbacuccata in due scialli di lana, col naso rosso per il freddo, davanti a un tavolinetto rustico e a un salvadanaio, dove infilava, ad uno ad uno, i soldini degli avventori, lamentandosi, dopo la morte del marito, il grande puparo Angelo Grasso, languida e triste come un salice piangente, per le tante spese che gravano sulle spalle del povero Giovanni… che butta sangue per niente, da mane a sera”.

Il pubblico del Teatro Machiavelli è composto essenzialmente da pescatori, artigiani, venditori ambulanti, calzolai, fabbri, legnaioli, carrettieri, panettieri, macellai, merciaioli, e molti studenti universitari che comprendono di essere agli albori di una straordinaria epopea artistica, sia in campo teatrale che in campo letterario.

Dunque, il giovane Nino Martoglio – capocomico, commediografo, regista, giornalista e poeta – è un assiduo frequentatore di quel locale e, assieme a Grasso (più giovane di lui di soli tre anni), il grande artefice nella nascita e dell’affermazione del teatro siciliano.

Due Pietre Miliari del teatro Siciliano “Nino Martoglio” e “Luigi Pirandello”

Il Martoglio nasce a Belpasso il 3 dicembre 1870, ma trasferitosi fin da bambino a Catania, è al “Machiavelli” che respira la polvere del palcoscenico e dell’arte vera, e anche nei cortili della Civita, nei saloni da barba della provincia, nei circoli di paese – del suo soprattutto – e nei vigneti che si estendono alle falde dell’Etna.

Nel teatrino di via Ogninella le serate sono articolate in due parti: la prima è dedicata “all’opira ‘e pupi”, la seconda alla rappresentazione di canovacci per lo più drammatici tratti da fatti di cronaca realmente accaduti – soprattutto di sangue – che quei giovani mettono sulle scene recitando a soggetto, dato che molti di questi non sanno neanche leggere e scrivere.

Le opere di Nino Martoglio raggiunsero ben presto una gran notorietà. Il suo nome è legato soprattutto a due opere composte per Angelo Musco: “San Giuvanni decullatu” del 1908, e “L’aria del continente” del 1910. Collaborò poi con Luigi Pirandello componendo “A vilanza” del 1917 e “Cappiddazzu paga tutto” del 1917, ”I Civitoti in pretura” del 1893.
Meno conosciuta, ma altrettanto valida fu anche la sua attività cinematografica. Il Martoglio, infatti, si dedicò alla regia nel 1913, anno in cui diresse “Sperduti nel buio”, un film muto ricordato nella storia del cinema italiano per la sua originalità e per la sua intensità espressiva. Nel pieno della sua attività lo colse improvvisamente la morte nel 1921, quando disgraziatamente precipitò in una tromba d’ascensore nell’ospedale catanese dove era ricoverato il figlio.

Il Pirandello

Scrittore, drammaturgo e poeta, il siciliano Luigi Pirandello (Agrigento,1867 – Roma, 1936) è considerato uno dei più grandi letterati di sempre. È uno dei sei intellettuali italiani che nel corso della storia ha avuto l’onore di essere stato insignito del premio Nobel per la letteratura; gli altri sono Giosuè Carducci, Eugenio Montale, Grazia Deledda, Salvatore Quasimodo e Dario Fo.

Già nel 1910 Pirandello comincia a comporre per il suo teatro dei testi in siciliano.

I suoi spettacoli ovviamente ottengono un gran clamore e apprezzamento da parte del pubblico e della gente di quell’epoca ed è proprio che col passare degli anni che Pirandello arriva a comporre un’altra sua grande ed importantissima opera “Sei personaggi in cerca d’autore” scritta nel 1921.

Opere che hanno reso famoso l’autore e la sua Sicilia come: “Così è (se vi pare)”, “Il fu Mattia Pascal”, “Uno, nessuno e centomila” e “Sei personaggi in cerca d’autore”.
 Il pensiero del Pirandello si fonda sul rapporto dialettico tra vita e forma. La vita, pur essendo continuamente mobile per un destino burlone, tende a calarsi in una Forma in cui resta prigioniera e dalla quale cerca di uscire, per assumere nuove forme senza mai trovare pace.

Il mio debutto importante in teatro nel 1975 con la farsa “I Citoti in Pretura” di Nino Martoglio

Anch’io ho calcato nel mio piccolo il palcoscenico sin dai tempi della scuola elementare… poi nel teatro dei Salesiani “Maestri nell’educazione dei giovani” interpretando sia ruoli comici che drammatici. Ma il vero debutto lo feci all’età di diciotto anni con una commedia degna della tradizione siciliana.

Ero un giovane diciottenne di Ragusa Ibla, mi ricordo ancora il mio stato d’animo “della prima…” ero teso poco prima di salire sulle tavole del palcoscenico e, una volta che il buio raggiungeva la sala avvolta da un silenzio profondo, era sempre come la prima volta. Una volta aperto il sipario, “l’attore” stringe un patto con lo spettatore e quest’ultimo, circondato da un’atmosfera unica e suggestiva, che solo il teatro sa evocare, non può che arrendersi e rimanerne affascinato… io ero lì, in un teatro parrocchiale messo a disposizione di un Frate “Padre Gregorio”, un vulcano di idee e progetti, egli aveva voluto nella sua parrocchia anche un gruppo teatrale, e lasciò al neoregista la libertà di scelta dell’opera da rappresentare come debutto della neo compagnia. Il regista propose “I Civitoti in Pretura” una farsa di Nino Martoglio… dove l’autore ritrae la sua Sicilia nei suoi aspetti popolari, ruspanti, con uno scilinguagnolo colorito, ricco di storpiature, di nonsense e di errori di pronuncia.

Era la mia prima esperienza teatrale più importante… mi fu assegnato il ruolo dell’avvocato.

L’atto unico “I civitoti in pretura”, scritto nel 1893, è il primo lavoro drammaturgico del ventenne Nino Martoglio ed è anche il più rappresentato. L’opera è un piccolo gioiello di comicità, oltre ad essere un ottimo esercizio per il recupero del dialetto. La popolana Cicca Stònchiti è chiamata a testimoniare davanti al Pretore di Catania riguardo ad una rissa che ha coinvolto un “malandrino” locale. La scena si dipana in un’aula di Pretura di un paesino della Sicilia, ove si processa l’imputato Masillara Fraschinedda, accusato di aver accoltellato un suo compaesano. Tutta la commedia ruota intorno alle incomprensioni tra il Pretore (proveniente dal Nord Italia) e la plebea testimone Cicca Stònchiti.

Quella “Prima” con la farsa “I Civitoti in Pretura” segnò l’inizio di una mia lunga partecipazione nel mondo teatrale locale sia come attore che come regista… regalandomi ogni volta la stessa emozione della Prima…

Da attore, sotto la regia di Gianni Battaglia, partecipai all’opera di Thornton Wilder “La piccola città” del 1938, opera che valse all’autore il premio Pulitzer per il Teatro.

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it