ALLACCIATE LE CINTURE DELL’AMORE

Ozpetek è il genio della turbolenza emotiva; la sua pellicola infiamma di passione e perdizione. Si serve di uno sguardo per realizzare una comunicazione sensoriale, in cui gli alti e bassi emozionali spiccano all’interno di una pupilla, luminosa nel sorriso e bagnata nel pianto.

La scelta di Kasia Smutniak, per inglobare l’interiorità psichica, resta pregnante nello spettatore, che ne rimane e ne resta coinvolto.

Elena, la protagonista, si ritrova a confrontarsi con un amore imprevisto, a cui non riesce a sfuggire, ad evitare le sensazioni erotiche, che la spingono ad azioni incontrollabili e indagatrici dell’ignoto.

Questa donna rappresenta il coraggio, di chi va fino in fondo per scoprire la verità, per capire se l’effetto calamita attrattivo ha ben ragione di esistere; scopre nell’agire l’estasi di toccare una pelle straniera, su cui sono impresse le sue impronte digitali; rischia e si perde in una fusione amorosa, che non sfocia solo in carnale sesso ma in dolcezza dei sensi, in un abbraccio intimo e protettivo, in cui il mare ne diventa colonna sonora naturale.

A prima osservazione sgomenta la sua scelta di un uomo completamente diverso da lei, rude e analfabeta, pieno di testosterone e di occhi famelici; procedendo nella relazione quest’uomo si rivela bisognoso di affetto e attenzioni, fragile e insicuro, con un cuore colmo d’amore; le sue mosse sono conseguenti al richiamo amoroso che questa donna scatena in lui, portandolo a viverla in condizioni assolutamente fuori dal normale, dai vincoli di ordine visivo convenzionale, e lo spettatore si commuove nell’osservare cosa il vero amore è in grado di generare.

Elena viene presentata come una donna caparbia, una grande imprenditrice, forte interiormente da poter affrontare un percorso chemio-curativo, per guarire da un cancro al seno.

Una malattia del genere poteva scatenare in lei rassegnazione e perdita di volontà di vivere, invece si trasforma in rinascita accecante, che dona forza ai familiari che le stanno accanto e a chi le vuole bene. Il cancro fa aumentare in lei l’amore, che sfocia nell’ora e adesso, le fa comprendere che il tempo è essenziale e che ogni momento va vissuto intensamente, in modo che un ricordo rimanga impresso anche quando lei non ci sarà più.

Il regista ci fa scoprire come l’innocenza non è simbolo di immaturità, ma è un mezzo sensibile per intraprendere il viaggio del dolore, di una figlia al sostegno della madre.

Il mare viene utilizzato come simbolo metaforico di cambiamento, il cui silenzio verbale travolge, diventa un segnale di sconvolgimento che racchiude urla di disperazione, di impotenza ad un destino già scritto.

L’intelligenza del regista si nota dall’utilizzare l’ironia della madre e della zia di Elena per smorzare la tensione nel suo più alto pantragismo, permettendo di ridere in situazioni di drammatica tristezza.

A fine pellicola Ozpetek concede una salvezza morale per la protagonista, espiandola da una colpa che non le appartiene; genera rispetto verso una donna che ha veramente amato ciò che le è stato destinato, di cui si sente fortunata, e senza aver privato la sua migliore amica di un legame collegato a differenti aspettative.

Un film che insegna le sfumature essenziali dell’amore, apre la coscienza alle forme riempitive dell’anima, e la furbizia del vivere si sviluppa nell’ilare consapevolezza e nel libero trasporto emotivo.

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