PIGNATTI: “RACCOGLIAMO LE PIANTE ALIMENTARI, FANNO BENE ALLA SALUTE”

Esattamente quaranta anni fa Sandro Pignatti, considerato il più autorevole botanico italiano, disse: “è prevedibile che nel giro di una generazione si sarà perduta perfino la memoria di quanto una volta l’uomo sapeva ricavare dal mondo vegetale; questo rappresenta una perdita netta, un ritorno all’ignoranza, un passo indietro nelle nostre conoscenze, che non dovrebbe venire tollerato tanto meno in questo secolo di lumi”.

Pignatti aveva in parte ragione. Io non credo che nel suo Veneto non ci siano più pensionati che vadano a raccogliere (a raccogliere non so cosa, non conosco la flora di quelle zone continentali), ma sono perfettamente certo che – dalle nostre parti – la sua profezia non si è avverata. Ma attenzione. Se nel 1971 Pignatti si diceva preoccupato fortemente per la potenziale scomparsa dell’enorme conoscenza accumulata in millenni e potenzialmente messa a rischio nell’arco di una sola generazione, potrebbe essersi sbagliato solo relativamente alla stima temporale. Intendo dire che finora almeno sono tanti, tantissimi gli iblei che – sopratutto i pensionati che abbinano le due fondamentali variabili: il tempo libero a disposizione e la conoscenza acquisita quando erano bambini, in anni ormai lontani – passano molte ore, in tutte le stagioni, a raccogliere erbe e piante, fiori e frutti nelle campagne che circondano le città dell’area degli Iblei (nella quale è giusto fare confluire anche città di altre province che però si reputano iblee: Noto, Avola, Rosolini, Palazzolo Acreide, Bucchieri, Vizzini, Mazzarrone).

È facile incontrare tantissimi – e sovente tra questi anche io con alcuni miei anziani familiari che mi fanno da maestri – in cerca di quelle che gli esperti chiamano piante “alimurgiche”. Il termine deriva dal greco “alimòs”, ovvero, semplicemente, “che sfama”. Si tratta quindi delle piante commestibili e nello specifico quelle che crescono spontanee nei terreni di questa parte della Sicilia. Nei dintorni di Ragusa – ripeto – siamo in tantissimi pronti a indossare guanti e armati di coltellino alla ricerca di piante che poi finiranno in frittate e insalate, a condire la pasta e – destinazione classica e quasi esclusiva di queste terre – nelle “scacce”.

Ecco quindi legioni di appassionati alla ricerca di “allium subhirsutum”, cioè l’aglio selvatico, “Asphodeline lutea”, cioè il matalufu, “asparagus albus o acutifolius”, cioè l’asparago utilizzato in mille modi ma che trova la migliore fine nel risotto, e pazienza se per un paio di giorni urinare significa dover sopportare quel tipico quanto fastidioso odore, “beta vulgaris”, cioè quella bietola selvatica che noi chiamiamo “agghiti”, “borago officinalis”, cioè la borragine comune che nella nostra lingua diventa “urrania” , “capparis spinosa”, che è ovviamente il profumatissimo cappero, “cichorium intybus”, cioè la comunissima cicoria, “foeniculum vulgare”, cioè il finocchio selvatico che nel nostro parlare diventa il bellissimo “finucciedu ri timpa , “myrtus communis”, cioè il mirto che noi facciamo diventare “murtida”, “calamintha nepeta”, ovvero la tenera e profumatissima “niepiteda”, “origanum heracleoticum”, il diffuso origano che noi appelliamo “arifunu”, “rubus ulmifolius”, ovvero quel rovo che da noi diventa “ruviettu”, “brassica nigra”, cioè la tanto apprezzata senape, che per noi è “u sanapu”, “thymus capitatus”, cioè il timo arbustivo, da noi molto diffuso e profumatissimo, indicato col bellissimo nome di “satareda” o di “satra”. E dire che, come si saranno accorti i più esperti in materia, ci siamo limitati alle piante erbacee, perenni o annuali che fossero. Se a questo già lungo elenco si dovessero aggiungere anche i frutti e le bacche di alberi che sono spontanei o – seppure coltivati oggi sono abbandonati – non basterebbe lo spazio messo a disposizione dal direttore Portelli (si pensi solo alle noci, ai melograni, alle mandorle, ai fichi d’India, ai fichi, ai gelsi).

Ecco perché reputiamo valido l’avvertimento di Pignatti datato 1971, e gli diamo ascolto ed attenzione. Solo che dalle nostre parti siamo ancora in tanti ad andare in giro col sacchetto e le scarpe vecchie, ma a questo punto, per non dare ragione all’illustre botanico veneto, abbiamo un obbligo: perpetuare le nostre conoscenze in fatto di piante alimurgiche (ed il nostro patrimonio di conoscenze è già molto ridotto rispetto a quello dei nostri avi, che conoscevano ed utilizzavano le piante anche per usi medicinali) trasmettendo quanto sappiamo, anche nei termini dialettali, ai nostri figli, che dobbiamo portare a Ciluonia per raccogliere “lassini” e a Bùttinu per gli asparagi, togliendoli anche solo per qualche ora dal parcheggio di un centro commerciale.

 

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it