GIOVANNI LISSANDRELLO VISTO DA…

Giovanni Lissandrello è nato a Ragusa il 26 Giugno del 1942. La sua prima partecipazione a una mostra collettiva risale al 1964 e di seguito espone in diverse collettive. Dopo un lungo periodo di studio (1973-1980) riprende la sua partecipazione a mostre collettive. Del 1985 è la sua prima personale a Ragusa. Nel 1988 viene allestita una sua personale presso la Gallery Expo Toyota di New York. Nel 1990 espone in una personale allo Studio Nuova Figurazione di Ragusa e partecipa alla collettiva Omaggio a Leonardo Sciascia presso la Galleria L’Androne di Scicli e lo Studio Nuova Figurazione di Ragusa. L’anno seguente partecipa al XXXV edizione del Premio “Campigna” a Santa Sofia di Romagna presso la Galleria d’Arte Moderna “Vero Stoppioni”.

Nel 1994 una sua personale a cura della Galleria Grimaldi presso Palazzo de Leva di Modica; nel 1997 è presentato dalla Galleria Bottega d’Arte di Acqui Terme alla “Miart” di Milano e lo stesso anno viene inserito nell’Annuario d’Arte Moderna e Contemporanea 1997-98 della De Agostini; inoltre, a fine anno, lo Studio Nuova Figurazione di Ragusa propone una sua personale. Nel 1998 espone da Repetto e Masucco all’Arte Fiera di Bologna e, con la Galleria Charta di Bergamo, alla manifestazione “Reggio in Arte” a Reggio Emilia; espone infine alla “Miart” di Milano presentato da Repetto e Masucco. Nello stesso anno è selezionato al Premio “Donato Frisia” a cura di Marina Pizzaiolo e Giovanni Anzani a Merate, Lecco. Sempre nel 1998 tiene una personale alla Galleria Bottega d’Arte Repetto e Masucco di Acqui Terme. Nel 2000 espone alla casa d’Aste Finarte di Catania e nella primavera dello stesso anno partecipa alla mostra Piero Guccione jour de fête per i sessantacinque anni di Piero Guccione, festeggiati alla Galleria degli Archi a Comiso. Nel 2003 è presente a Palazzo Spadaro a Scicli nella mostra Le primavere di Franco Sarnari, collettiva in omaggio ai settanta anni dell’artista. Nel 2004 è la prima mostra assieme al Gruppo di Scicli, che nell’aprile viene proposta dalla Galleria d’Arte Moderna Le Ciminiere di Catania. Nel 2010 partecipa alla mostra L’Annunciazione – 35 pittori per Antonello da Messina presso il Centro Culturale “Vitaliano Brancati” di Scicli. L’anno dopo è la volta dell’antologica Opere 1954-2011, tenutasi presso il Museo della Cattedrale di Ragusa, a cura di Andrea Guastella. Nello stesso anno partecipa alla ventunesima edizione di “Istanbul Art Fair” in Turchia e interpreta Giotto in una personale a tema prima presso la Galleria Il Chiodo di Ragusa, poi presso la Galleria Assisinarte di Assisi, a cura di Amedeo Fusco. Nel 2012 è invitato da Vittorio Sgarbi alla 54° Esposizione d’Arte della Biennale di Venezia. Torino, Palazzo delle Esposizioni, Sala Nervi. Sempre nello stesso anno partecipa alla mostra Visioni dall’arte contemporanea presso il complesso dei Dioscuri al Quirinale, Roma, e nel Museo Archeologico Nazionale Di Buccino (Salerno) a cura di Amedeo Fusco e Rosario Sprovieri, Partecipa infine alla rassegna Artisti In Villa presso la Villa Romana Del Casale di Piazza Armerina e alla collettiva Poesie d’amore presso il “Vitaliano Brancati” di Scicli. Nel 2013 espone alla mostra Primavera Dell’arte presso il Museo Archeologico Regionale di Gela, a cura di Francesco Gallo Mazzeo e con la direzione artistica di Giovanni Iudice, partecipa alla collettiva Pittura e Cinema presso il “Vitaliano Brancati” di Scicli. Del suo lavoro si sono occupati C. Mezzasalma, M. Ginnici, G.Occhipinti, F.Garofalo, A. Campo, O. Spadola, A. Campo, P. Nifosì, P. Repetto, E. Mandarà, A.Guastella. P. Guccione, M.Vallora.

 “Tenera e tenebrosa la notte sugli Iblei. Lissandrello. Strani sortilegi dei nomi. Non molte ore fa, dialogando amabilmente di pittura, il venerando Balthus, evocando i suoi rapporti con Cézanne, raccontava placido: «Ero piccolo, non avevo forse nemmeno tre anni. Mio padre era un collezionista accanito, di Daumier, Delacroix, Courbet, pittori che sono stati molto importanti, per me. Ma ancor prima di vederlo, di capirlo, io sentivo sempre parlare in casa, con molto rispetto e circospezione, di un certo Cézanne. Insomma, ho incominciato ad ammirarlo e venerarlo prima ancora di imbattermi in una sua tela. Soltanto per quel nome, pronunciato con tanto rispetto, ed è da allora che ho incominciato ad amarlo». Quel puro suono fonetico: Cézanne. Il nome degli artisti: inutile disturbare Proust, per riconoscere il fascino cieco eppure riverberante di certi nomi di luoghi, certi appellativi di persone, che talvolta abbiamo sentito soltanto evocare, nella geografia piatta di una mappa o nel reticolo di un pettegolezzo. Ebbene, io credo di esser stato colpito dal flatus vocis di Lissandrello (così, senza nemmeno l’appendice scodinzolante del suo nome Giovanni) prima ancora di riconoscerne davvero i tratti. E ancora non lo conosco di persona: ho frequentato talvolta le sue tele, ma fuori da ogni contesto, isolate sul bianco spersonalizzante di stand peregrini, o sulle pareti affettuose della Galleria di Acqui Terme. (E mi è piaciuta soprattutto quella luminosità sommersa e petrosa, che non vuoi affacciarsi provocatoria sulla tua retina, che non vuole ‘adescarti’ catturando il tuo consenso: anzi, che tende a nascondersi, a dialogare basso e come perplessa, sospesa. Scontrosa quasi. Borbottando, entro la schiuma di nebbia urticata della memoria). Eppure quel suo cognome così antico dall’umile diminutivo monacale me lo rese subito familiare e fraterno: lo diresti il nome di un pittore lombardo del Seicento, lo pseudonimo penitenziale di un fraticello pittore, che ha nascosto le sue opere tra i muschi poco eroici di un eremo in disarmo. Il Lissandrello: e i nomi, si sa, hanno una loro segreta intensità di destino. Certo, un Lissandrello non potrebbe dipingere mai, colorato e fiammante, come un Renato Guttuso. Felpati si avanza del resto nelle sue paste, un poco serali, come scoprendosi importuni, se non proprio esclusi da quella cera intemporale: e accanto, addentrandoci intimiditi nel colore, ci par d’esser sfiorati, silentemente, da un gattopardesco prevosto che va a distribuire, riluttante, una delle sue scabre, ultime estreme unzioni. O da un pastore che deve ancora faticare il suo quotidiano dovere. Perché Lissandrello è pittore antico, davvero, assorto dal contemporaneo, indifferente ai rumori di lambretta della modernità: anche se poi ha particelle, particole anzi, che potremmo grattar via da tavolozze ben più à la page della sua (come stona, giustamente, questa formula, in un contesto così catafratto, inchiavardato. Non c’è nessuna ‘moda’ nella vernice stanca di questo artista raccolto. Perché Lissandrello è inchiavardato nella sua natura di penombra: nei suoi irreperibili soli di pietra siciliana). Nulla, in lui, però e per fortuna, della scolastica anacronistica, così di moda in questi anni, nulla di ricalco dell’antico, di d’aprés, di citazionismo post-modern: il suo è proprio un istintivo, connaturato ‘far antico’, senza dilemmi o giochi di pastiche. Come se alla finestra di campagna Lissandrello, impermeabile, si fosse rifiutato di ascoltare i petardi asmatici della Storia: anzi, meglio: non se ne fosse nemmeno accorto.

 

Un’adesione senza intermediari o mediazioni direttamente contaminandosi alla pelle della pittura classica, cinquecentesca, come per gemmazione, auscultandone le vibrazioni, accostando l’orecchio o l’occhio alla parete gonfia di salnitro. Semmai, una sacra conversazione con quelle fonti inestinguibili di pittura veneta, lagunare, innestata nella luce antonellesca del Meridione (ma c’è più ombra che solarità, nel vedutismo melanconico di Lissandrello). Un calco da guancia a guancia, di nostalgia della pittura. Su mia sollecitazione, Lissandrello mi ha scritto una lettera semplice ed esemplare: «Sono un pittore autodidatta che ha sempre lavorato con paziente tenacia per cercare di conoscere se stesso. Lavoro con pochi colori, rapidi accenni di disegno e prediligo i colori rarefatti e antichi, come se custodissero i segreti del tempo e il fascino di questa allegoria della vita, in uno spazio di mistero» Tutto qui, anzi, tra ‘molto’ qui. L’umiltà può diventare un martello nicciano assai devastante, senza nemmeno ricorrere all’ironia. E non sempre uno si crede assurto a missioni grandi, a inventare il Nuovo. Gli basta saggiare via via il ‘proprio’ piccolo nuovo, modesto quanto grandioso. Perché ogni nuovo sguardo può risuonare rivoluzionariamente originale, ogni ripetizione-variazione di uno stesso squarcio di natura può trasformarsi in invenzione, in avvicinamento modulante alla verità. Come naufragare in quei luoghi spettrali, che infondono una pace ritrovata e rinnovata, sempre nuova ed eguale a se stessa, come il mare di Valéry. Sensibilmente, per introdurlo nel mondo dell’arte, il suo conterraneo Guccione cita Ravel: «Lavoro troppo e dormo due ore per notte… La resistenza umana non è senza limiti. Ma tutto il piacere dell’esistenza consiste nell’incalzare la perfezione sempre un po’ più da vicino, nel rendere un po’ meglio il fremito segreto della vita». Quel mistero, appunto, di cui parlava Lissandrello. Che poi si può scoprire anche in una minima, vertiginosa piccolezza: «ho incominciato a dipingere a otto anni, quando, affascinato dai colori mescolati da un mio fratello imbianchino, ne rubai un po’ e li provai come primo esperimento su un muro. Fu la scoperta di un mondo nuovo, un rapporto con il colore che è stata la mia continua ricerca e ha dato senso alla mia vita». Dare un senso alla propria vita, non un’ambizione al mondo. Lissandrello dipinge, lo dice lui stesso, “l’incanto dei luoghi”, in quelle finzioni staccate d’affresco: quell’atmosfera rappresa ed indecifrabile da Tempesta giorgionesca, quando il tempo si sta rabbuiando, ma non ha ancora consegnato al mondo la certezza della metamorfosi: quei tempi indecisi, in cui indugi sull’androne di casa incerto se portare con te una protezione qualsiasi. Perché sono ‘interni’ d’esterno, i suoi, abitati da presenze umane raccolte in icone sabbiose e sommerse, recuperate nel ventre di una memoria che si sta disfando, come l’impronta labile di un fiato sullo specchio dei moribondi. Interlocutori filosofici d’una conversazione al crepuscolo, ritagliati come decalcomanie della melanconia, entro la pasta buttirrosa e scalcitante di un declino di luce al colore di sale. A differenza di tanti pittori contemporanei (primo fra tutti il siciliano Isgrò, ma anche il siciliano d’adozione Sarnari) Lissandrello non propone le sue cancellazioni, o delle disparizioni fluttuanti di forme. Le sue, anzi, sono semmai riesumazioni, resurrezioni istantanee di immagini smarrite nel gorgo della materia. Personaggi che combattono indolentemente per tenere un attimo la scena nella timbrica delle forme svanenti: Illuminazioni (così suggerisce un titolo) di affreschi perduti, sinopie spumeggianti in un mare di bitume. Il bianco attonito di una Annunciazione moderna, dopo macchiaiola. Ed è bello perché, se il suo ‘dirimpettaio’ di Comiso, La Cognata, ha assorbito tutto il sole dell’estate, lo stridio delle cicale, l’incandescere delle stoppie, Lissandrello racconta invece l’altra Sicilia, quella aspra, dura, bianca di penombre degli Iblei, che fa da sfondo a certe pagine di Mastro don Gesualdo, da sipario al folle rapimento di Turi Ferro, nel Tu ridi dei Taviani. Sicilia rocciosa e sterrata. Come un chiromante in attesa di millenarie mutazioni anatomiche, dice: «io amo soprattutto le linee delle montagne iblee, luoghi che mi affascinano e mi commuovono. Mi piace quel sentimento sacro che oggi è quasi smarrito». Tamponi di cespugli biancastri, ricami informali di licheni alle soglie dell’informale, cieli brevi ed avari come sfuriate matrimoniali, le linee inesplicabili dei terrazzamenti che disegnano come un’indecifrabile trama di scrittura naturale. Semplicemente strade che si perdono nelle montagne sorde: ad ogni richiamo. Anche i radi interni d’appartamento, dallo Studio del pittore alla Mensola in salotto, sono come intasati di luce, di materia, soffocati da questa smania di strappare le figure al bordino incalzante della notte. Poltiglia di conversazioni, di confidenze rapprese, nel silenzio meticoloso della pittura. Nel silenzio raschiato, come un soprassalto notturno. Memorie appese e messe in fila come festoni di dagherrotipi. Disinvolte spatolate alla De Stäel per fare l’antico. Questo è, a suo modo, originalità.” (Marco Vallora)

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