RAGUSA SORPRENDENTE

Mentre viaggiatori occasionali, o predeterminati che siano, turisti e visitatori, indagano con lo sguardo alla ricerca di aderenze tra il narrato delle guide (o delle finzioni televisive) e l’oggetto da contemplare, esiste – probabilmente – una città capace di sorprendere di per sé, perché inaspettata. Si tratta della porzione di città meno soggetta all’impacchettamento turistico, per cui l’occhio umano che accidentalmente vi si trova innanzi non è preparato, non opera dunque da soggetto ma subisce in qualche modo l’entità immanente inconoscibile che come essenza sovrintende un luogo, e vi si assoggetta – sorpreso – sempre e comunque per il tramite di strutture architettoniche. Non sto dicendo che non valga la pena di stare a contemplare la curvilinearità del barocco, non mi sognerei neppure di fare trapelare una certa mia preferenza all’essere osservato da un eventuale genius loci, piuttosto che aspirare allo sguardo razionalizzante dell’uomo. Ciò che cerco di rilevare e che talvolta il soggetto-uomo, nella contemplazione delle bellezze paesaggistiche e/o urbanistiche, adotta degli indici che provengono da sovrastrutture di indirizzo intellettuale e dunque si ritrova ad essere molto più oggetto di quanto possa immaginare (ciò accade non solo nell’ambito delle visite turistiche).

Ci sono delle vie di uscita, comunque interpretative (limitate), e dunque pur sempre soggette a categorizzazioni dottrinali precedenti, ma che tuttavia rendono libero (come tensione) il soggetto nella fase di rielaborazione. Penso ad esempio a Santa Maria delle Scale, tra Ragusa superiore e inferiore (o Ibla che si voglia chiamare), simbolicamente ma anche materialmente, il momento di passaggio in cui la linea, da che si era innalzata verso i cieli, comincia a ridiscendere per poi avvilupparsi nei riccioli spiraloidi del barocco. L’imbastardimento dovuto al terremoto del 1693 (ma in gran parte compartecipò sempre l’uomo, nel corso dei secoli), ha interrotto per sempre qualunque aspettativa di purezza architettonica, nella nostra area geografica, così che oggi appare più utile osservare il tutto come un unico disegno. In ogni caso, quando poco fa scrivevo di una Ragusa sorprendente, nel senso di “atta a sorprendere”, mi riferivo ad altri quartieri più distanti. Dove la città più nuova si è appropriata di aree rurali, tra orribili palazzine, si celano affascinanti (e fatiscenti) strutture abitative dei tempi che furono, per il ristoro-villeggiatura dei nobilotti di qualche tempo fa, e ormai abbandonate a un destino che non conosce vie di mezzo prudenti e rispettose del passato: o il restauro funzionale al profitto economico-finanziario, o la rovina senza termine. Penso a Villa Moltisanti, o a Villa Boscarino, ad esempio.

Ciò che però mi ha sorpreso maggiormente, forse più di tante altre notevolissime ragusanità, è Piazza Fonti, minuzia da ricercatore, o incidente di percorso in una intrapresa parallela di Corso Italia. Inutile approfondire il movente, nel mio caso specifico l’inaspettato interessante mi costrinse – all’epoca in cui avvenne il mio primo incontro con la piazzetta – a posteggiare per scendere dall’auto e contemplare da ogni angolo la semplice eppur contrastante rilevanza simbolica del luogo (nel simbolismo voluto, e in quello involuto). I miei amici (sarebbe meglio dire “compagni”, per varie ragioni ideologiche e filosofiche) mi rimproverano spesso una mia smodata attrazione nei confronti di ciò che riguarda l’Art Nouveau. Mi viene rinfacciato ciò che significò il Liberty in Italia, perlomeno correlandolo a una riflessione sui primi quarant’anni di storia del novecento, a ciò che fa pensare tra le tante sciagure coeve, sia beninteso. Eppure penso che i primi tredici anni dell’Italia liberale e parzialmente socialista del novecento, abbiano apportato modernità di pensiero e prospettive positive, malgrado l’esito degli auspici; così i monumenti sono pagine di storia in tre dimensioni, e solo un popolo adulto e responsabile è in grado di rispettarle, preservandole per le generazioni future, per studiarle e associarvi riflessioni, valutazioni, negative o meno spesso positive. E poi, io credo che parlare poco, o apprezzare poco, il Liberty italiano, sia una conseguenza del sentirsi ancora troppo vicini al novecento, e si fatica a farne rientrare gli stilemi artistici e architettonici sullo stesso piano qualitativo del barocco (ad esempio). Penso che, malgrado le lugubri manifestazioni di violenza da cui discese una schiera di uomini succubi di una ristretta visione ideologica che della “volontà di potenza” faceva un vessillo, ci sia pur sempre uno spazio per la valutazione estetica (d’altro canto, i secoli di dominazione spagnola non furono meno cruenti del novecento, eppure nessuno si sogna di vituperare pieghe, ombre e linee curve). Mi piacerebbe conoscere in maniera più approfondita la storia di Piazza Fonti, per cui invito l’eventuale lettore informato a farmi partecipe di ciò che egli possa saperne. Per ciò che ho da rilevare, mi lascia assolutamente estasiato l’andamento circolare, assecondato anche dai palazzi storici che lambiscono lo slargo, la colonna-obelisco a centro, e i sobri mascheroni della fontana stessa (non più presenti, purtroppo), il tutto incutendomi persino un panico timore inspiegabile e insondabile. L’art nouveau è d’altro canto la necessaria deduzione di una ottocentesca smania di collezionare oggetti “strani” o talvolta persino mostruosi (manifestazione parossistica ne è stata la concezione circense), da accomodare in una sola stanza-museo, o in determinati angoli dell’abitazione. La concomitanza con lo spiritismo, e l’interesse eccessivo di una società borghese per l’occultismo, che da Madame Blavatsky conduce a Crowley (non cito Evola, poiché il discorso è ben differente, seppur correlato), ha sicuramente influito – inconsciamente in moltissime occasioni – nel gusto di chi ideava strutture estetiche. L’ingrigirsi della pietra vecchia di cent’anni e le sue gradevoli “muffe”, porzione dell’altro semicerchio adontato di palazzine più recenti, sono parte di un unico simbolo-monumento alla borghesia, in declino senza tregua da ormai due secoli, in ordine alle credibili tempistiche marxiane.

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