LA MOBILITA’ SOCIALE

C’è stata un’era, non molto lontana, in cui parlare di mobilità sociale aveva un senso. Erano discorsi plausibili quelli che la riguardavano, discorsi sospinti dall’ottimismo della volontà (in controtendenza al pessimismo della ragione): la volontà che avevano espresso i padri costituenti di rifondare questo paese sul valore fondamentale del lavoro, considerandolo un diritto e non un fattore opzionale; la volontà di modernizzare la società senza consegnarla nelle braccia del capitalismo senza controlli e senza contrappesi (oggi qualche idiota di lingua e di stirpe anglosassone afferma che la costituzione italiana è troppo piena di socialismo,  come se questo fosse un difetto!); la volontà di favorire in tutti i modi la possibilità che chiunque – da qualunque condizione di partenza  – potesse “scalare” la piramide sociale.

Questo è possibile soltanto a due condizioni.

La prima è che lo stato si faccia carico di dare a tutti – a qualunque condizione appartenga – gli strumenti per costruire il proprio destino, secondo le inclinazioni, le potenzialità, le risorse personali. Scuola gratuita o a bassissimo costo, università  accessibile con tutti gli strumenti di facilitazione sociale che rendano la sua frequenza e il conseguimento di una laurea alla portata di tutti.

La seconda, intrecciata alla prima e più fondamentale è che lo stato favorisca processi di redistribuzione della ricchezza dall’alto in basso nell’ordine salariale, del welfare, dell’accesso al mercato del lavoro: ciò mediante politiche fiscali ed economiche  mirate all’obiettivo di massimizzare quei processi.

Cosa sia successo durante gli ultimi 30 anni è sotto gli occhi di tutti, almeno di coloro che vogliono vedere.

La scuola e l’università pubbliche sono state messe in ginocchio, culturalmente ed economicamente, mentre è stato favorito un massiccio spostamento di risorse verso il settore privato.

Il welfare è stato progressivamente smantellato, dietro i temi di facciata dell’aziendalizzazione, consumando una vera e propria spoliazione del diritto di assistenza.

La redistribuzione della ricchezza ha invertito il suo trend, che fra il dopoguerra e i primi anni ’70 aveva assicurato il consolidamento di meccanismi socio-politici efficaci in direzione di una centralità del lavoro e dell’impresa rispetto allo strapotere della rendita e della concentrazione finanziaria. A partire dalla metà di quella decade il processo si è progressivamente irrigidito nello spostamento di quote massicce di ricchezza dal basso verso l’alto, con il conseguente impoverimento dei ceti salariati e dei ceti medi.

L’economia, sempre più “finanziarizzata”, ha assunto l’immagine del neo-liberismo, la più scellerata dottrina filosofico-economica mai formulata, assumendo al centro del suo universo operativo la nozione di “individuo imprenditore di sé” e implementando processi di affermazione del valore della precarietà, della competizione, dell’allontanamento dello stato dai flussi produttivi e di accumulo.

In tale contesto ogni discorso sulla mobilità sociale ha perso di senso, pratico e culturale, che non sia quello riconducibile alla narrazione, allo stoytelling fondativo dell’identità americana: una società che dietro la promessa di un’opportunità di progresso comune e individuale sbrana i suoi figli, nelle tante guerre ingaggiate, negli spaventosi divari di ricchezza, nella quasi totale assenza di ogni diritto sociale che non passi per l’accensione di una qualche polizza assicurativa!

 

 

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